Home Cronaca Dimmi: chi sei?

Dimmi: chi sei?

20
9

Alla domanda “Chi sei tu?” come rispondereste? La risposta a tale domanda apre a considerazioni interessanti. Sono una donna, un medico, un italiano, un montanaro, un cittadino del mondo, un padre, un musicista.

Secondo come un individuo risponde, è possibile scoprire molto di come egli si percepisce.

Entrano in gioco processi di identificazione che, se analizzati dall’esterno, possono fare comprendere come si articola la formazione del Sé. Le teorie cognitiviste rilevano che nel processo di sviluppo, gli individui categorizzano se stessi così come la realtà. Pertanto la risultante finale per quanto riguarda la propria identità sarà un insieme di Sé multipli, che si attivano e diventano operativi a seconda della situazione.

In altre parole una madre italiana che lavora come negoziante e ha come hobby il ballo liscio, alla domanda “chi sei tu?” risponderà definendosi con quella parte del sé con cui più si sente rappresentata, e per dirla con un termine psicologico, identificata. Se risponde una ballerina, sarà quella l’immagine preponderante che lei avrà di sé.

Il rischio è quello di sentirsi totalmente identificati in una sola parte: sono un bravo commerciante. E passare la vita a credere di essere “quello”. Ciò che può accadere è che quando arriva una disconferma, o un sospetto che non è così, o non lo è più, si ha la percezione che crolli il mondo, di non essere più “niente”. Se la ballerina di cui sopra, un giorno dovesse subire un intervento e non poter più ballare, la ferita identitaria sarebbe devastante ben più se ella si fosse definita un’italiana.

Ci sono tre aree identitarie nella formazione del sé: l’identità fisica, che coincide con la propria fisicità, col corpo. L’identità sociale, che richiama il gruppo, o i gruppi, di appartenenza, la nazionalità, la parrocchia, ecc. L’identità psicologica, l’organizzazione di personalità, l’insieme dei meccanismi di difesa, la visione del mondo, lo stile di fronteggiamento delle difficoltà, il grado di resilienza, cioè della resistenza agli eventi drammatici della vita.

Pertanto non ci sarà solo UN Sé ma sé multipli, diversi, che diventano operativi, se necessari e situati.

La forte identificazione con una soltanto di queste aree può diventare penalizzante, nel caso in cui si subisca un danno, o un cambiamento di rotta.

Ad esempio se una donna si identifica totalmente con il sé fisico, a una modificazione del corpo può reagire con un senso di catastrofe. Una cicatrice, un aumento di peso, le normali rughe che subentrano con l’avanzare del tempo, saranno vissute come una crudele condanna, e una perdita identitaria. Da qui le lotte per mantenere un’immagine di se stessi, pena la perdita del senso di sé. “Se non sono più la bella donna, giovane e con un corpo tonico e snello, chi sono io?”

Allo stesso modo se l’identificazione avviene con la parte del sé sociale, con l’appartenenza a un gruppo etnico, a una piccola realtà, come un paesse di montagna del nostro Appennino. Se accade un trasferimento, l’individuo fortemente identificato con la propria appartenenza nazionale, o paesana, faticherà a inserirsi nel gruppo nuovo.

Identificarsi ciecamente con un solo aspetto di sé comporta l’entrata in gioco di altri meccanismi psicologici inevitabili. Se la persona si sente principalmente un “paesano”guarderà con sospetto chiunque non sia come lui.

In più sarà portato a leggere tutto da quella prospettiva. Una mamma che vede il mondo “solo” da mamma, leggerà ogni evento con quella chiave. Lo stesso uno sfruttatore della prostituzione, vedrà ogni donna come potenziale lavorante. E così via.
L’essere identificati con solo una parte del sé porterà anche allo screditamento di ciò che esula dall’area di quella parte del sé. O alla sprezzante derisione. Non ti capisco, non ti conosco, ti derido.

Una persona senza cultura, con il valore dello sballo del sabato sera, “bevo, mi sballo, dunque sono”, sarà portata a credere che tutto il mondo faccia altrettanto e che quello sia “la norma”. Di fronte a comportamenti diversi sarà portata a screditare chiunque faccia diverso. Pertanto per sentirsi superiore non avrà altra scelta che quella di sminuire l’Altro, considerato strano, sbagliato e fuori dal campo della propria visione.

La derisione e lo screditamento sono meccanismi di difesa attuati per attenuare la propria inferiorità avvertita come deficit. Le persone hanno un bisogno inesorabile di difendere l’immagine che hanno di sé. Messi a confronto con realtà differenti, che gettano ombre sgradite, reagiscono cercando in tutti i modi di screditare chi è percepito migliore, superiore. O soltanto diverso, se non si hanno gli strumenti per comprendere la diversità.

Anche il pettegolezzo, il tanto deprecato gossip, avrebbe una funzione sociale fondamentale: nella frantumazione della realtà, nel passaparola degli affari altrui, si nasconde il bisogno di comprendere, di sviscerare, narrare e condividere realtà che non sono proprie. E che magari non lo saranno mai, si guarda dalla finestra, e ci si pone nel ruolo di spettatori.

Questi fenomeni sono stati studiati con esperimenti interessanti dagli psicologi sociali. Numerose ricerche indicano come gli individui spontaneamente attribuiscano il punto a favore per il proprio gruppo, a prescindere. E siano pronti ciecamente a screditare l’altro gruppo avvertito come esterno.

Alcune persone sentono di appartenere a un gruppo svantaggiato e tentano il passaggio a un altro gruppo, visto come migliore. I criteri di passaggio della mobilità sociale variano. Si può cercare di accedere a un gruppo ritenuto più vantaggioso, con l’alacrità, con la cultura, con la bellezza, usando il proprio corpo, come pare stia avvenendo sulla scena attuale italiana.

Se si percepisce il gruppo in cui si vuole entrare come permeabile e accessibile singolarmente, la persona attua una scalata individuale. Se i confini sono avvertiti come chiusi e impermeabili, allora si danno forma a gruppi organizzati per sovvertire l’ordine, e cambiare la configurazione della scena sociale.

Di fatto è interessante osservare e osservarsi, riconoscendo le aree di identificazione maggiori per ognuno. È provato che più rappresentazioni di sé si hanno, meno si soffre se si subisce un deficit in un’area identitaria.

Un test divertente è quello di disegnare se stessi al centro di un foglio. Costruendo una mappa concettuale, scrivere tutto intorno aggettivi e parole chiave che rappresentino se stessi. Poi cancellare quelli di cui ci si potrebbe, o si è pronti, a disfarsi. Le parole che restano, quelle indelebili rappresentano le aree identitarie più forti.

Avere molti interessi, guardare a se stessi come “persone” con una costellazione di aspetti porterà a un’attitudine più rilassata nella vita, senza sentirsi minacciati per la paura che qualcuno porti via qualcosa, o in lotta per affermarsi a tutti i costi.

9 COMMENTS

  1. Uno, nessuno, centomila…
    Un articolo che fa riflettere anche chi, come me, ritiene di avere una percezione piuttosto precisa di sè. Forse lo spasmodico modificarsi del mondo esterno, dei costumi e quindi anche dei rapporti sociali mina l’identità del singolo spingendolo ad acquisire sfaccettature, anche diverse dalla priopria indole, per il solo motivo di sentirsi integrato. A seguito di ciò domando all’autrice se non si corra il rischio di passare da una monolitica concezione di sè ad una non in evoluzione ma in perenne adattamento alle correnti dominanti. Il continuo divenire di caratteri particolarmente fragili può sfociare nel parossistico corollario di personalità multiple? Quanto è realistico supporre che da una persona molto sicura di sè (Uno) non si passi a troppe identificazioni che equivalgono, alla fine, nel non averne nessuna?
    Grazie.

    (Celeste Grisendi)

  2. Tra Bunga Bunga e Uno nessuno centomila
    Gentilissima Celeste, sarà pure che lei ha una percezione precisa di sè, ma quel nome lì già la dice lunga e la contraddice perchè di celesti ce ne possono essere di diverse gradazioni.
    In merito alla sua affermazione sul fatto che “…lo spasmodico modificarsi del mondo esterno, dei costumi e quindi anche dei rapporti sociali mina l’identità del singolo spingendolo ad acquisire sfaccettature, anche diverse dalla priopria indole, per il solo motivo di sentirsi integrato”, mi sento di consigliarle di guardare meno Marzullo, la sera prima di addormentarsi. Dalle mie parti usa la camomilla la sera e di giorno si lavora e non si scrivono robe del genere che uno ci perde una giornata solo a capire la domanda.
    Mentre laddove scrive se “il continuo divenire di caratteri particolarmente fragili può sfociare nel parossistico corollario di personalità multiple?”, le dico solo: parli come mangia, per favore!
    In merito alle correnti dominanti, ben vengano: tra uomini (anche se non è il suo caso, certo) diciamocelo. A chi non piacerebbe un bel bunga bunga?
    Se poi lei intende insinuare che “una persona molto sicura di sè (Uno) non si passi a troppe identificazioni che equivalgono, alla fine, nel non averne nessuna?”, io le dico che sono UNO, NESSUNO, CENTOMILA.
    Più semplicemente, suo…

    (Fulminant La Penna)

  3. Rispecchiamento sociale
    Gentile Celeste, grazie per l’interessante spunto di approfondimento. Quello da lei sollecitato è un altro tema molto importante in psicologia: il rispecchiamento sociale. Siamo anime sociali, predisposte ad interagire, all’Alterità. Dal confronto continuo con gli altri io mi formo l’immagine di chi sono. In pratica si forma una danza, un dialogo con gli altri. Io mi propongo e gli altri mi rimandano un messaggio, io faccio modifiche e aggiustamenti successivi. E così via. L’approccio socio-costruzionista nato negli anni ’30 con Vygotskij, sviluppatosi con Jerome Bruner e attualissimo nelle ricerche di Clotilde Pontecorvo dell’Università di Roma, è fondato sostanzialmente sul concetto che la realtà viene creata INSIEME ogni momento dallo scambio interattivo con l’Altro. Alcune correnti estremiste di questo approccio (Giuseppe Mantovani, Luigi Anolli) sostengono che esiste solo la relazione in ogni momento, tra me e Altro, e da quello nascono continuamente significati. Pertanto, secondo tale impianto teorico, io e lei ora stiamo costruendo qualcosa insieme grazie a questo breve scambio, e da ogni interazione scaturisce una modificazione anche del sé. Dopo questo confronto essi direbbero “nulla è come prima”. Questa visione porta a una concezione del mondo e degli esseri totalmente in divenire. Fluida e liquida come direbbe Bauman. E un po’ come diceva Eraclito, un bel po’ in anticipo. Percepirsi come soggetti già formati e definiti porta una a cristallizzazione del Sé, a una visione rigida. Il Sé invece subisce continui adattamenti e trasformazioni a una realtà mutevole e in divenire. Questo non toglie che esista una parte del Sé, un nucleo osservante, che resta vigile, ed è quello che molte filosofie orientali chiamano il Testimone, colui che guarda imperturbabile lo scorrere degli eventi.

    (agc)

  4. Ottimo esempio, signor Fulminant
    Grazie anche a lei, signor La Penna. Lei senza volere ci ha servito un esempio su un piatto d’argento. Chi non comprende, o ha paura di non comprendere, ha due alternative. Si informa e si documenta, se la sua apertura mentale glielo consente, oppure chiude, deride e la butta sul sarcasmo che è un meccanismo di difesa di chi non si sente adeguato o ha paura di non esserlo. Lei ha riproposto ciò che accade quotidianamente e ci ha fatto un bell’esempio di quanto sopra scritto: screditamento e derisione. Grazie anche a lei!

    (agc)

  5. L’arroganza è l’urlo dell’impotente
    Il signore lì incarna l’arrogante che incontriamo tutti i giorni al bar, lo sbruffone, che non capendo neanche vuole dire la sua. E siccome non ha capito, per far finta di brillare deve impolverare i dintorni. L’arroganza non è altro che insicurezza… chi è sicuro del suo non ha bisogno nè di urlare, di prendere in giro, nè di sminuire… L’arrogante vive nel deserto affettivo.

    (Commento firmato)

  6. Più che un commento… una domanda
    Una domanda per comprendere meglio le complessità che hai descritto: l’individuo è sempre cosciente della propria identità o l’accetta per costrizione dalle vicende sociali in cui è coinvolto, tipo maschere pirandelliane, che ci vengono imposte, cambiandole in ogni mutare di situazione? In conclusione non credi che ci si adegui alla idea di noi stessi che più si attaglia alle necessità contingenti? Non credo di essere stato molto chiaro ma rileggerò nuovamente il tuo intervento riflettedoci dato che l’ho trovato piacevolmente interessante. Quanto ai soliti “omnia lurida luridis” non ti curar di lor… ma guarda e passa.
    Ciao.

    (Gioacchino Pedrazzoli)

  7. Ridiamoci addosso
    Grazie ad AGC per la difesa e non se la prenda, signor Fulminant, se talvolta mi provo a fare qualche intervento “de curtura”, anche se il pollo lo mangiavo con le mani non disdegno l’uso appropriato di coltello e forchetta. Il Suo commento mi ha fatto sorridere, ma non di Lei, con Lei. La leggo sempre con la curiosità di vedere chi metterà alla berlina, questa volta è capitato a me e, creda, mi va benissimo.
    Alla prossima.

    (Celeste Grisendi)


  8. Rileggendo il pezzo ho visto che il mio ragionamento era proprio accennato nel 3° paragrafo… forse mi ero distratto guardando la figura sulla destra. In effetti credo che se non esprimiamo una preferenza assoluta sulle nostre personalità multiple disponiamo di maggiore autodifesa nel caso di fallimento o esaurimento del ruolo in una di queste, dato che disponiamo di ampie riserve di personalità.

    (Gioacchino Pedrazzoli)

  9. Personalità, Sé, carattere, temperamento
    Gioacchino, preciso e rispondo in parte alla sua domanda. Nell’articolo si parla di Sé multipli in riferimento al cognitivismo. In psicologia ci si deve intendere sulla terminologia, se no si rischia di fare confusione. La personalità è un insieme di 1) temperamento, la parte innata, il motore che abbiamo in dotazione; 2) cognizioni, le idee che abbiamo sulla vita e sul mondo; 3) carattere, quella parte reattiva alla realtà; 4) il Sé, quell’insieme organico e coerente che determina l’individualità della persona. Nell’articolo si parla di Sé multipli nel senso che, a seconda delle situazioni, l’individuo si crea varie identità con cui rispondere agli stimoli e alle richieste dell’ambiente, delle situazioni. E più una persona ha modalità di risposta e più cose fa, meno si troverà male se dovrà rinunciare a una di queste. Le PERSONALITA’ MULTIPLE sono un disturbo, una patologia, tutt’altra cosa. Era doveroso precisare, anche se in modo impreciso e sbrigativo, non essendo questa la sede. Per approfondimenti: Tiziana Mancini – Psicologia dell’identità Il Mulino – 2010.

    (agc)