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Rigoberto, una scelta coraggiosa a piedi sui sentieri della guerra. E della libertà

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VILLA MINOZZO (6 febbraio 2011) - In un momento così difficile per l’Italia, fa bene guardarsi indietro e ricordare, in occasione della Giornata della memoria, che non tanto tempo fa c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di scegliere di essere deportato in un campo di concentramento piuttosto che tornare in patria a combattere contro i propri fratelli italiani. Era il 9 settembre 1943 quando oltre 600.000 militari italiani (IMI), che fino al giorno prima avevano combattuto al fianco dei tedeschi alleati, si sono ritrovati prigionieri e davanti a quella scelta.

La storia degli internati militari italiani (Italienische Militär-Internierten - IMI) è poco conosciuta. IMI era il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all’Armistizio di Cassibile (8 settembre 1943). Davanti alla scelta impostagli solo il 10% degli IMI accettò l’arruolamento nelle file dell’esercito tedesco, nonostante le continue pressioni dei repubblichini di Salò durante tutta la prigionia; gli altri vennero considerati «prigionieri di guerra», poi «internati militari» (per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra) e, dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, «lavoratori civili», in modo da essere sottoposti a lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa, che gli spettavano e riconosciute invece ai prigionieri militari inglesi e francesi.

Ripercorrere oggi questo pezzo di storia è importante, perché contribuisce a riscoprire i valori fondativi della nostra Repubblica, valori nati anche da una «resistenza non violenta», senz’armi, di uomini, militari, deportati in campi di internamento e lavoro coatto per scelta.

È a questi uomini che giovedì 27 gennaio 2011, presso la Chiesa del Collegio San Carlo di Modena, è stata conferita una medaglia d’onore dal Presidente della Repubblica per mano del prefetto Benedetto Basile, ritirata dalle loro famiglie. Fra le 165 medaglie d’oro consegnate per la provincia di Modena, quattro erano di Carpigiani e fra queste anche quella di mio nonno, Rigoberto Filippi (che ci ha lasciato nel 2004 all’età di 92 anni).

Non ha mai voluto parlare tanto della guerra, per il nonno era un capitolo chiuso che non voleva riaprire, anche se a volte, sotto forma di favola, raccontava qualche episodio a noi nipoti quando eravamo bambini. Ma grazie alla tenace ricerca di mia madre e dei miei zii che volevano ricostruire il percorso di deportazione del nonno con l’obiettivo di visitare quei luoghi in una sorta di viaggio della memoria a dimensione familiare (che abbiamo fatto lo scorso giugno), sono riuscita a conoscere meglio la storia di questa compagnia militare di mitraglieri, di cui faceva parte Rigoberto, e aggiungere un tassello alla mia conoscenza della storia italiana.

Il gruppo di mitraglieri italiani, mandati a Lubiana da Mussolini per combattere i partigiani locali a fianco degli alleati tedeschi, è stato catturato il 9 settembre 1943 avendo avuto notizia dell’armistizio direttamente dai tedeschi. Dopo la scelta di «dire no a Hitler e Mussolini», una parte di loro fu mandata a Trieste alla Risiera di San Sabba – lager nazista di transito, detenzione ed eliminazione di un gran numero di detenuti – per poi partire su un treno diretto in un campo M- Stalag 1A a Nord della Germania (Stablack, Pr, Eylau). Da lì iniziarono a dividerli e alcuni insieme a mio nonno furono spediti in un campo di lavoro M-Stalag VIII B in Polonia al confine con la Cecoslovacchia (Lamsdorf, oggi il paese del campo è Český Těšín in Repubblica Ceca), facendoli camminare per due giorni senza mangiare né bere. Rigoberto rimase in quel campo fino all’arrivo dei russi il 22 aprile 1945, giorno in cui iniziò la fuga a casa insieme a un suo amico sopravvissuto come lui. Riuscì a rientrare a Villa Minozzo il 20 maggio 1945, dove lo aspettava mia nonna Elvira con i primi tre figli (Felice, Alfio e Alfa), che subito non lo riconobbero. La casa era stata bruciata ben due volte dai tedeschi e anche la nonna aveva dovuto «lottare», in quegli anni di preoccupazione e separazione dal marito, contro una guerra feroce che sembrava non finire mai, contro la fame e privazioni, e contro alcuni giovani violenti che in due occasioni la intimorirono, minacciando di morte il suocero.