Riceviamo e pubblichiamo il seguente contributo.
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Negli ultimi tempi molti articoli, commenti o considerazioni sull’Appennino propongono come tema centrale la viabilità e la manutenzione delle strade e dei sentieri e a volte questi temi sembrano essere l’unica “idea” per il futuro di questo territorio, l’unico scopo da perseguire in uno scenario altrimenti depresso e destinato a declino inesorabile. Consapevoli di non avere la Soluzione a tutti i problemi, vorremmo condividere le riflessioni elaborate nel corso del nostro studio-progetto “La strada dal mare – invertire la rotta”, presentato anche a Castelnuovo ne’ Monti nel febbraio 2010, nella speranza che possano in qualche modo contribuire ad aprire un confronto costruttivo sulle tematiche del nostro Appennino. Non ci interessa qui discutere di chi dovrebbe pulire i sentieri, tappare le buche delle strade o costruirne di nuove e veloci, né di quanto costi farlo.
Ci interessa piuttosto riflettere sulle potenzialità di questo territorio, chiederci se davvero occuparsi di manutenzioni stradali sia l’unico orizzonte da offrire ai giovani dell’Appennino per fare sì che non se ne vadano per sempre e se non ci siano proprio altre idee, altri mezzi per conquistare un futuro migliore, vivo e interessante per la montagna. Va detto anche, ed è doveroso farlo, che l’Appennino oggi fatica a rispondere alle esigenze di chi ci vive o di chi potrebbe scegliere di viverci e che abitare in montagna oggi può essere per certi aspetti una scelta quasi estrema. Nessuna considerazione o progetto può avere un senso se non tiene conto del benessere delle persone e del loro diritto ad una vita soddisfacente: questo criterio e non altri dovrebbero essere il fine di ogni proposta concreta e costruttiva.
Tre considerazioni prima di tutto:
1 - l’epoca dei grandi investimenti pubblici, che ci piaccia o meno, è finita; siamo costretti a parlare di soft economy anche perché le risorse di un tempo non ci sono più e ce ne saranno sempre meno. Voltarsi indietro alla ricerca di grandi opere o di investimenti pubblici i cui passivi saranno ripianati in tempi successivi da qualcun altro è anacronistico e ingiusto. E’ ormai appurato che i contributi elargiti da una politica “consolatoria ed assistenziale” si rivelano dei fallimenti;
2 – è ora di guardare al futuro: il passato è importante e la sua conoscenza fondamentale perché un territorio possa progettare il suo futuro, ma continuare a rievocare nostalgicamente la montagna del “tempo che fu” è - a nostro parere - fuorviante e non costruttivo. Oggi, forse per la prima volta nella storia, il benessere è una realtà concreta per molte persone che vivono in montagna, e sta a noi ora trovare nuove idee per far sì che si possano mantenere e migliorare quegli standard di vita conquistati a caro prezzo, guardando, finalmente, avanti;
3- anziché pensare a come “tenere” le persone in montagna, dovremmo concentrarci su come rendere attraente il territorio: quante più opportunità offre un territorio quanto più interessanti saranno le persone, gli investimenti e le attività che sceglieranno di dirigersi verso di esso.
Detto questo, cosa fare per rilanciare l’Appennino? Servono davvero grandi opere? Il tema della grande opera, dell’infrastruttura che arriva e cambia le sorti del territorio è ricorrente nelle discussioni sul futuro della montagna. Intervenire sul paesaggio per trasformarlo a proprio vantaggio non è una cosa nuova nella storia dell’Appennino: la nostra montagna è fortemente antropizzata ed annovera opere frutto di perizia costruttiva e di secoli di lavoro, basti ricordare i castelli e gli apparati difensivi arroccati sulla sommità dei rilievi, la struttura di certi borghi pensata per garantire riparo dal vento e dal gelo e sapientemente studiata per non sottrarre i terreni migliori alla coltivazione; i terrazzamenti di Vetto; i chilometri e chilometri di strade lastricate tra un paese e l’altro e verso i pascoli, solo per fare alcuni esempi.
Dal momento che la trasformazione del paesaggio è connessa naturalmente allo sviluppo di una società, non proponiamo certo una crescita zero nè pensiamo che la montagna vada preservata e sottoposta integralmente a rigidi vincoli. Il nostro ragionamento non è tanto sul “cosa” fare ma soprattutto sul capire “perché” e “come” intervenire su questo territorio. Non è sempre detto, e i nostri studi ce lo hanno confermato, che a cambiare radicalmente le sorti di un luogo sia solo un intervento frutto di giganteschi investimenti; a volte interventi costosissimi si sono rivelati fallimentari dando origine a inutili cattedrali nel deserto. Dei molti luoghi che abbiamo visitato e analizzato, alcuni hanno cambiato profondamente i loro orizzonti di sviluppo puntando sulla conservazione della propria integrità e qualità architettonica (Santo Stefano di Sessanio); altri hanno ritrovato spinte di crescita dalla realizzazione di una grande opera, ricca però di contenuti, di progetti e di legami con il territorio (Bard, Vals); altri ancora hanno messo in moto processi imprenditoriali decisamente importanti partendo da piccoli ma virtuosi progetti di ricerca (Bolzano). Non esiste dunque una ricetta valida per tutti, l’unica cosa certa è che prima di intervenire su un territorio bisogna averlo capito e analizzato globalmente nei suoi aspetti socioeconomici, architettonici e paesaggistici.
Oggi è sempre più evidente il ruolo che storia, natura e cultura hanno nelle trasformazioni dei territori; progetti di sviluppo non possono più prescindere da riflessioni e analisi approfondite di questi aspetti. Un progetto in grado di rivitalizzare un territorio non è fatto solo di “hardware”, ma soprattutto di “software”: è sulla conoscenza e sulle idee di un territorio che è necessario lavorare per capire come intervenire su di esso. La conoscenza del nostro territorio però (non per tutti ma per molti) va scemando e si perdono nomi, usi ma anche idee, stimoli, valori perché li si immagina solo in un altrove che è quasi sempre urbano e omologato. E così davvero il territorio sembra grigio e inutile e i paesi finiscono col trasformarsi in agglomerati di case che galleggiano sul nulla e per questo oggi sembrano lontani da tutto, anche dalle stesse periferie urbane senza storia e qualità a cui assomigliano sempre di più. Se viviamo in un luogo che non conosciamo, che consideriamo emarginato e perso in una zona grigia, se la cultura diffusa ignora il nostro paesaggio e la nostra realtà non ci sarà strada o comodità che potrà trattenerci dall’andare, presto o tardi, altrove.
Riteniamo dunque che prima di tutto serva una nuova riflessione sul territorio e una nuova visione del suo rapporto con la vita delle persone per arrivare a una progettualità che nasca dal territorio stesso e sappia collocarsi in un orizzonte globale. I territori che vincono non sono quelli che si omologano a quanto hanno vicino indipendentemente dalle loro vocazioni o che importano sterilmente progetti di altre realtà (l’Appennino reggiano non ha mai potuto e non potrà mai essere il distretto ceramico di Sassuolo, il Trentino-Alto Adige e neanche Reggio Emilia). Per essere attraente un territorio deve sapere diventare un laboratorio di idee e di progetti e trovare poi la forza e la capacità di portarli avanti in modo che crescano e si trasformino in prodotti e azioni imprenditoriali all’avanguardia.
Nell’Europa di oggi non vincono più le produzioni quantitative; per intenderci, non vince chi produce più piastrelle, più motori, più formaggi, ma chi produce uno speciale tipo di piastrelle, motori, formaggi che nessun altro è in grado di fare. L’Italia in questo ha un’enorme potenziale, dovuto proprio alle sue infinite diversità. In Appennino esistono molte capacità e potenzialità; la sfida è riuscire a far nascere e crescere quelle sinergie e quell’entusiasmo fondamentali per mettere a punto le idee, collocarle nel giusto contesto socio economico e trasformarle in progetti di ricerca di alto livello.
“Le idee buone costano poco”, ha detto Filippo Lenzerini presentando alcuni dei progetti messi a punto nell’ambito del piano di sviluppo del Parco nazionale, e non possiamo che sottoscrivere: i progetti di ricerca che un territorio laboratorio porta avanti lavorano su numeri piccoli, hanno un costo iniziale contenuto ma riescono a mettere in moto processi positivi di sviluppo ed apertura. Spesso quando un’idea può essere valida anche per altri territori si può imparare a “venderla” e un territorio diventa non solo un laboratorio ma anche una scuola e si genera così un turismo di nicchia, di persone che vengono sul territorio per conoscere meglio le sue idee e le sue caratteristiche per interesse culturale o professionale, portando a loro volta conoscenze nuove.
Il territorio laboratorio genera indotto in varie direzioni e contribuisce a creare un’immagine positiva e migliore dei luoghi. Il territorio laboratorio crea opportunità per i giovani che hanno la passione e la forza di portare avanti la ricerca.
Riteniamo che alcuni progetti del Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano vadano in questa direzione, come l’esperienza messa a punto con Reggio Children e l’Enel a Ligonchio per la realizzazione della Porta dell’acqua e dell’energia e a quella in corso a Licciana Nardi nelle antiche botteghe del paese; entrambi progetti che trovano la loro forza nell’attitudine ad aprirsi al mondo lavorando sulle vocazioni naturali, sulle eccellenze e sui punti di forza dei luoghi e nella capacità e nel coraggio delle amministrazioni di sostenere scelte coraggiose. Ci sarebbero molti ambiti per cui l’Appennino potrebbe diventare un territorio laboratorio.
Per citarne alcuni:
- in campo agroalimentare: perché non mettere a fuoco un progetto di ricerca eccellente per raggiungere migliori livelli di qualità, oppure per inventare nuovi macchinari o ancora per recuperare antichi prodotti? Creare magari una piccola scuola per formare chi sia interessato, comunicare i risultati e fare si che quel luogo diventi, per quel particolare settore, un importante centro di innovazione?
- In campo artigianale ed industriale: perché non creare con le eccellenti imprese edili che operano sul territorio un centro di ricerca e sviluppo per mettere a punto tecnologie costruttive ad alta efficienza energetica e realizzare prototipi residenziali e produttivi di edifici innovativi da un punto di vista energetico e correttamente inseribili nel contesto paesaggistico?
Se anche un solo progetto di questo tipo avesse buon esito potrebbe portare persone sul territorio, creare nuovi contatti alle imprese locali e dare alla montagna una nuova immagine come centro di progresso e di creatività. Quello che proponiamo è in definitiva un nuovo e diverso metodo di intervento. Naturalmente c’è una condizione necessaria perché tutto ciò possa funzionare: a lavorare a questi progetti, a seguirli e a coordinarli ci vogliono persone che ci credano e che sappiano impegnarsi con tutto il loro entusiasmo e le loro capacità, evitando processi “a cascata” in cui un progetto, anche se ottimo, si perde poi in mille rivoli e nessun vero referente. La passione per ciò che si fa è il vero fattore discriminante per il successo di operazioni come queste.
In conclusione: vediamo in Appennino molte potenzialità per un possibile sviluppo, legato strettamente ad un ritrovato rapporto fra persone e territorio e ad un approccio moderno e pratico al tema della ricerca; uno sviluppo possibile, concreto e non condizionato dall’arrivo di milioni e milioni di euro. Crediamo in questo approccio legato alla soft economy e al mondo delle reti, della conoscenza e della qualità perché lo abbiamo visto funzionare in molti luoghi; perché è un metodo e non una ricetta preconfezionata; perché propone un modello di sviluppo che rimette in moto il territorio senza snaturarlo. Soprattutto, crediamo profondamente nell’Appennino, nella volontà, nella passione e nelle capacità della sua gente e nella straordinaria ricchezza della sua cultura e della sua storia; siamo convinte che questo territorio abbia tutte le potenzialità per crescere ed evolversi e per giocare a testa alta il suo ruolo nel mondo rimanendo sé stesso.
Una provocazione per un sforzo collettivo e pubblico per l’Appennino: si parla di turismo, di qualità ambientale e di salvaguardia del paesaggio ma intanto qui si sono costruiti edifici produttivi e residenziali che potrebbero stare ovunque e i paesi rischiano di trasformarsi in periferie senz’anima. Si vive bene solo dove si rispetta il paesaggio. Perché non fare dell’Appennino un luogo bello e sostenibile in cui abitare e lavorare, un Esempio di Paesaggio dove il sistema uomo-natura–attività produttive si concretizzi armonicamente? Perché non dare inizio ad un progetto di ampio respiro volto alla riqualificazione urbanistica, architettonica ed energetica dei nostri paesi e degli edifici produttivi?
(Architetti Silvia Costetti e Chiara Dazzi)
Condivido gran parte dei concetti espressi nell’articolo, in particolare quando si dice che l’epoca delle grandi opere pubbliche è finita… Il difficile sarà farlo comprendere alla gente che troppo spesso viene imbonita da venditori di fumo locali con promesse di km di asfalto… Travisando completamente la realtà.
(P. Prandi)
Le vostre tesi sono apprezzabili, ma spero anche discutibili. Sentendomi, in qualche misura, interpellato dalle vostre riflessioni cerco di interloquire dal mio punto di visuale, cioè dal crinale appenninico dove vivo.
Credo importante sottolineare il “luogo” da dove si vivono e si vedono le problematiche. Il crinale (dove vivono circa 6.000 persone) ha situazioni, caratteristiche, peculiarità che lo distinguono dal resto dell’Appennino e della provincia. In particolare quando parlo di viabilità, sentieri, boschi, regimazione torrenti o prati pascolo parlo avendo a riferimento sia le potenzialità che le criticità del crinale. E ciò avendo consapevolezza che mai, tanto meno nel nostro tempo, tutto è interdipendente e vi è l’esigenza di ragionare in un’ottica molto ampia. Ritengo infatti di non perseguire obiettivi ed orizzonti diversi da quelli da voi evocati.
Anzitutto vorrei sottolineare un primo aspetto. Sento spesso rivolgermi, più o meno esplicitamente, l’accusa di arretratezza e cioè che chi evoca viabilità adeguata e manutenzione del territorio sia prigioniero di una mentalità arretrata ed assistenziale, in perenne attesa di “contributi elargiti dalla politica”. Non è così! Nessuno credo, almeno io no, sogna per il nostro crinale il distretto ceramico o Reggio Emilia come modelli; sarebbe, ancorchè impossibile, una deturpazione inaccettabile.
Il mio ragionamento si basa su due dati di fatto:
1) le persone sono sempre meno ed in maggioranza pensionati;
2) il territorio è in abbandono e quindi degrada pericolosamente.
Posso assicurare per diretta conoscenza che il motivo di fondo per cui i giovani se ne sono andati e se ne vanno è a causa della distanza dai luoghi di lavoro. Così come posso assicurare per diretta esperienza che la situazione dei boschi, dei torrenti, dei sentieri, dei muretti a secco, dei prati stia degradando velocissimamente.
Ebbene io credo che prendendo di petto il secondo dato che ho enunciato si possa tra l’altro dare parzialmente risposta al primo. La manutenzione permanente del territorio, assunta come esigenza del Paese, può dare lavoro e reddito in loco. Non pensate anche voi che i miliardi che lo Stato spende per le alluvioni, le frane, i crolli sono emergenze in gran parte a causa del dissesto esistente a monte? Non sarebbe più giusto e intelligente investirli sulla manutenzione permanente e preventiva? Vi sono cooperative, aziende che “vivacchiano” con poche unità e magari devono pietire appalti fuori comprensorio, la manutenzione integrale del territorio darebbe loro lavoro e permetterebbe di assumere giovani lavoratori. Sarebbero famiglie giovani che qui resterebbero.
Infine sulla viabilità. Spesso chi solleva questa esigenza viene tacciato di sottovalutare le potenzialità delle nuove vie di comunicazioni telematiche. Anche qui, almeno per quanto mi riguarda, nulla di più sbagliato. L’informatica in tutte le sue implicazioni è una grande opportunità ed una alleata delle zone periferiche, ma non può essere totale alternativa ad una esigenza di mobilità fisica di persone e merci che permane essenziale.
Dico quindi conclusivamente che se con una viabilità scorrevole, per quanto possibile nei fondovalle, si raggiungessero i luoghi di lavoro, là dove già sono, con tempi ragionevoli e sufficiente sicurezza, molti giovani non sarebbero tentati di trasferirsi e ritengo, proprio per la qualità di vita da noi godibile, potrebbero anche ritornare. Sarebbero quelle famiglie giovani che ristabilirebbero il tessuto socio-economico del crinale, proprio ciò che renderebbe più applicabili le indicazioni e le piste di lavoro apprezzabili da voi proposte.
(Claudio Bucci)
Evviva!!
Quello che Voi argomentate é musica per le mie orecchie! Sono uno di quelli che, lontano da sempre ma vicino nell’anima, ci credono e agiscono nell’ottica di una partecipazione volontaria sistematica che dà luogo ad iniziative come quelle che il presidente del Parco ha definito “cooperative paese” pensate e realizzate per non far “chiudere” i nostri paesi. Ebbene, fatta questa premessa, sono in linea col Vostro approccio e, ripeto, leggo volentieri tutta la sequela delle Vostre considerazioni, ne condivido una parte vicino al 100%, ma per aver vissuto “in corpore vili” le battaglie combattute fino ad oggi sono arrivato alla conclusione che prima di vincere la guerra (contro un nemico che é politico nel senso del “pochi abitanti-pochi voti-pochi soldi) occorra combattere e vincere le battaglie più “sostenibili” e tra queste la prima é proprio quella della viabilità; la viabilità é la chiave di volta della vivibilità: sceglie di restare o di tornare o di scegliere chi può accedere agevolmente ad un sito; da noi non ci saranno mai attrattive industriali o nuovi “gold’s appeal”; ci potranno essere intelligenti impianti di rinnovabili o, come di te Voi, opifici alimentari biologici; su di essi potrà essere organizzato anche un turismo, secondo l’impostazione “di comunità” che conosco e ho praticato; c’é il clamoroso esempio di Varese Ligure e del suo illuminato sindaco Caranza. Un Appennino come il nostro, rivitalizzato con gli strumenti che Voi stesse indicati e che oggi ha una invidiabile certificazione europea che ne fa un’isola felice (ripopolata) come potrebbe succedere a noi. Ebbene, numerose volte ho invitato i nostri sindaci a salire su un bus e andare a toccare con mano: neppure preso in considerazione.
Anche là, comunque, prima di “costruire” si é passati per la viabilità; probabilmente il problema era più semplice per le minori distanze dalla grande viabilità ma, risolto il problema di base, le idee, quelle giuste, hanno trovato un humus ideale. Da noi siamo ancora agli stadi iniziali ma le idee ci sono e ci vorrebbe nulla per dar loro forza: per parafrasare, stravolgendolo, il solito “Piccolo principe”, abusato dai politici, il desiderio di montagna e di ripartenza c’é, ed é molto diffuso, servono le condizioni oggettive, il sostrato di viabilità per farlo fiorire.
(Lino Giorgini)
Ho letto con attenzione quanto riportato, ritengo condivisibile ed auspicabile che il nostro Appenino non diventi la SASSUOLO 2 oppure una città invivibile piena di auto e inquinamento. La cosa che non è condivisibile è la parte VIABILITA’, portata nell’articolo all’estremo, sostenendo che tutto nel nostro TERRITORIO ruota intorno all’idea STRADE. Se così fosse avremmo anni or sono chiuso baracca e burattini e ci saremmo trasferiti altrove.
Innegabile però che che uno sviluppo o “un’attrattiva” di un territorio passa anche per strade sicure e scorrevoli. Sovente viene da me un amico che gira l’Europa. Ultimamente le sue visite sono sciamate; alla mia domanda del perchè risponde: “Robbi ma che strada!!! Tra buche e altro non se ne può più, è un’angoscia!!!”. Come dargli torto, questo è solo un piccolo esempio e il mio amico si ferma a Castelnovo; se dovesse andare al Cerreto verrebbe ogni 10 anni!!! Stesso discorso per eventuali investimenti, troppo alti i costi di trasporto, troppo lunghi i tempi di percorrenza, per poi non parlare del rischio. Dire che non è vero sarebbe come negare la realtà, la NON STRADA è un forte deterrente per coloro che vogliono visitare un territorio. Nessuno sogna MEGA STRADE a 4 corsie, ma si chiede UNA strada sicura e scorrevole. Negli interventi precedenti si menziona l’impossibilità per i giovani di permanere in montagna. Giusto, il pendolarismo è troppo ONEROSO in fatto di costi e di tempo, per poi non parlare del RISCHIO.
La vostra ricetta in parte corretta potrebbe essere un PUNTO di partenza per trovare una soluzione a questa nostra terra, ma la strada è IRTA di ostacoli… Indispensabile accantonare il campanilismo, ringiovanire la politica… Servono idee e umiltà e la mano di tutti.
(Roberto Malvolti)
Sviluppo e strade
Siamo alle solite: uno studio interessante e approfondito prova, in modo semplice e comprensibile, a presentare alcune proposte, sensate ed accettabili, che potrebbero ribaltare in positivo i drammi esistenziali e i timori di spopolamento dei comuni montani. Ed ecco che i soliti noti, null’altro trovando da criticare, esordiscono con i consueti lamenti sulla mancanza di strade di fondovalle, rapidi collegamenti per i pendolari, investimenti di generale manutenzione del territorio.
Come pendolare al rovescio, negli anni ’70 del secolo scorso per 5 anni ho viaggiato quotidianamente da Reggio a Castelnovo Monti e ritorno (senza le gallerie Colombiane) e, pioggia neve o tempesta, partivo da Reggio alle 6,30 per arrivare su entro le 8. Mi sarei sognato i 60 minuti che impiegherei ora, anche se ho l’impressione che allora ci fossero meno buche e più manutenzione stradale. E comunque mi sembra che il pendolarismo non possa essere considerato decisivo nell’ottica di sviluppo prefigurata dallo studio. Credo che prima di chiedere nuovi interventi stradali dovremmo riflettere sul fatto che le strade ora esistenti, ovviamente opportunamente curate, costituiscono una rete che pone l’Appennino reggiano quantomeno allo stesso livello di quello delle vicine province. Oggi per i 42 km da Castelnovo Monti a Reggio ci vuole un’ora; per i 72 dal Passo del Cerreto a Reggio un’ora e quaranta minuti. Se fosse tutta autostrada (cosa ovviamente impossibile per costi economici e ambientali) il tempo sarebbe rispettivamente di 25 minuti e 40 minuti).
Si possono calcolare in proporzione le riduzioni dei tempi a seconda dell’entità degli interventi viari e dunque dei costi necessari a sostenerli. Il massimo che si può immaginare è di interventi complessivi di qualche decina di milioni in alcuni anni.
In conclusione: davvero l’appetibilità dell’Appennino cresce se si abbassa di 7-8, anche 10 minuti il tempo per raggiungere il Cerreto? Credo che ad attrarre le presenze turistiche sul crinale sia ben altro: la presenza di un ambiente tutelato e valorizzato da un Parco nazionale, la qualità delle offerte turistiche proposte ma soprattutto il loro rapporto qualità/prezzo.
(Gioacchino Pedrazzoli)
Ho letto con avida curiosità la vostra lunga proposta e, da ex-giovane che, come tanti, dall’Appennino è dovuta fuggire, credo che dovrebbe essere accolta e ripensata ancora più a fondo di quanto non abbiano fatto – mi par di capire dai loro commenti – i lettori di questo sito. E’ certo un tentativo “apprezzabile” di indirizzare i nostri sogni, è certo una strada molto “irta”, ma è certo anche il pensiero coraggioso di chi ha ancora la forza di guardare alla trasformazione e al cambiamento – anche quelli più radicali – come strade percorribili. E dunque, a mio avviso, questa vostra proposta andrebbe letta più a fondo perché in essa sta il senso ultimo del problema di questo Appennino e della gente che lo abita, che non è – o non dovrebbe essere – solo quello di potersi spostare agilmente da queste montagne, quanto quello di poterci vivere, di non aver bisogno di strade per fuggire. Proponendo un nuovo e diverso metodo di intervento avete proprio centrato la questione, che non è solo fatta di cose concrete, strade, sentieri, boschi, quanto, e soprattutto credo, di cultura, di pensiero, di come ci avviciniamo a queste strade, sentieri e boschi, di che vogliamo farne, di che significa occuparci della loro manutenzione. E’ il problema annoso di come mettere a frutto le ricchezze che questa terra offre e di come creare intorno ai nostri paesaggi concreti anche paesaggi culturali che ci rendano più consapevoli delle nostre potenzialità.
A voi il plauso per i vostri suggerimenti e per la caparbietà con cui tentate di andare avanti. Brave!
(Margherita Becchetti)
Credo che per riavere la rinascita culturale che merita l’Appennino reggiano non si abbia bisogno nè di strade nè di grandi investimenti ma solo di aspettare qualche generazione. Generazione che non darà valore al tempo con cui raggiungerà Reggio ma darà valore alla fortuna di essere riusciti a vivere in un posto sano. Adesso è ancora presto per molti pensare che un giorno queste cose saranno importanti, ma mi sento di poter dire che niente avrà più valore di una vita in un territorio come l’Appennino reggiano. Solo con visioni d’insieme adesso futuriste come descritto dagli arch. Costetti e Dazzi un giorno si avrà un Appennino nuovo. E per questo ci vorrà ancora un po’ di tempo e gente che ci crede.
(Umberto Lusetti)
Un’analisi splendida
E’ una analisi molto lucida, peccato che sia in ritardo di 20 anni; e ormai il gap non si colma più, specie senza investimenti e in periodi di vacche sempre più magre. Inoltre, visto che la montagna si sta spopolando saranno gli anziani a portare avanti la diversità dei nostri territori. E’ un bell’articolo che parla di passione; magari se la passione c’è l’avessero messa i nostri rappresentanti politici in passato la montagna ora non sarebbe in questa condizione.
(Lorenzo Fabbiani)
Dopo Piacentini…
Credo che la proposta Costetti-Dazzi sia il ragionamento più approfondito che abbiamo potuto ascoltare sullAppennino, a tanti anni dal famoso ottimo progetto a Appennino di Osvaldo Piacentini. Diversi i tempi, diversi i contenuti, ma riscontro in entrambi una visione che considera l’Appennino per i suoi propri valori e non come periferia di altri centri fisici, economici o culturali. La relazione con altre aree più o meno vasta e sviluppate è pensata alla pari. Le strade non sono centrali, perché valutate giustamente come utili infrastrutture e non come metafore dell’omologazione, della subalternità e, alla fine, della fuga dall Appennino. Un Appennino dormitorio per lavoratori pendolari e vissuto come luogo di impresa soprattutto per una manutenzione del territorio a carico della spesa pubblica non è cosa assurda nè lontana dalla realtà; ma non è attrattivo e desiderabile quanto basta per giovani, donne, famiglie attive, risorse umane di valore e conseguentemente esigenti. Al punto cui è giunto, specie sul crinale, il nostro territorio domanda soprattutto servizi sociali, sanitari, di trasporto, ecc. Ma senza la motivazione e la promozione di un nuova imprenditorialità i servizi saranno solo lenitivi di un declino demografico irreversibile. Non possiamo rassegnarci a questo. Per dirla con una metafora, il crinale chiede “una badante” per le sue esigenze quotidiane; ma se vuol sottrarsi al definitivo declino deve prendere una bicicletta da corsa. Non è proprio la stessa cosa. E questa metafora può rendere l’idea della difficoltà e anche delle incomprensioni che può incontrare un’azione di ricerca e sviluppo. Non è un lusso, ma una necessita imprescindibile dopo 50 anni di arretramenti demografici. La ricerca non è detto abbia successo. Ma riscaldare (per di più con minori risorse) fruste minestre del passato non potrà cambiare le cose. La ricerca è fatta di investimenti sulle eccellenze, di innovazione e anche di uno sforzo culturale che non sia nè un monologo nè un dialogo tra sordi. Chiara e Silvia ci possono aiutare.
(Fausto Giovanelli)
Stimolo
Credo che la ricchezza di un territorio sia nella volontà e nell’intelligenza dei suoi abitanti. Premesso ciò, il nostro Appennino ha una grande miniera: energia e ambiente. Energia: ci renderebbe autonomi dal metano e derivati del petrolio. Come? Biomassa: i nostri boschi aumentano del 30%/anno la massa forestale, poi idroelettrico (alta val d’Enza e alta val d’Asta non sono state sfruttate). La realizzazione della diga di Vetto permetterebbe decine di posti di lavoro per sistemare i circa 300 kmq a monte dell’invaso valutabili in 100 unità nei primi dieci anni e circa 50 permanenti. Ambiente: l’Appennino reggiano è indubbiamente il più ricco, vario e verdeggiane dell’intero Appennino settentrionale con vere e proprie unicità (Gessi triassici, Pietra di Bismantova, vallate moreniche importanti…) con la presenza di formazioni geologiche nella media montagna (Vetto, Casina e parte dei territori di Carpineti e Castelnovo ne’ Monti) che la rendono stabile (con poche plaghe detritiche) e con terreni fertili (funzionali alla produzione del miglior formaggio al mondo). Partendo da queste basi le giovani generazioni con elevata scolarità, se aiutate a creare poli di ricerca ad elevato contenuto innovativo, potrebbero essere il volano per la crescita sociale, qualitativa ed anche economica delle comunità dell’intero Appennino reggiano.
Grazie per l’attenzione.
(A. Vincenzo Merlini)