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Ricordi del vecchio Castelnovo / Lunedì all’Osteria del Moro

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Per un montanaro di rispetto non era possibile esentarsi da una capatina al mercato il lunedì mattina. Inconsciamente diventava l’occasione per comunicare con altre persone, con abitanti di altre borgate. Era l’occasione per informarsi sull’andamento della politica e dei prezzi dei prodotti tipici del territorio, dal formaggio al grano, al bestiame. Ma vi era anche chi s’intrufolava nell’Osteria del Moro (nel centro storico di Castelnovo ne' Monti, ndr), apparentemente per dissetarsi con un bicchiere di toscano ma con l’intima speranza che vi fossero già i satirai. Costoro avevano la consuetudine di ritrovarsi in quell’osteria per recitare o ascoltare le ultime battute in campo di satira. L’incipit della riunione era semplice ma efficace, tale da passare poi a proverbio: Cûn i pê sùta al tavlîn, - cûn dednâns un fiàsch ad vîn, - ch’al sia lambrúsch, ch’al sia tuscân, - basta ch’al sia un vîn da cristiân.

Come periodo storico ci troviamo tra gli anni che vanno dal 1930 al 1960, anno più, anno meno. Allora, a pontificare, a emergere su tutti era Isaia Zanetti della Casoletta di Villaberza. E le satire di Isaia erano apprezzate ma anche temute, a tal punto che gli eredi ancora oggi non permettono di consultarle per timore che vi sia chi ancora può offendersi. Chi ha avuto la possibilità di assistere alle declamazioni di Isaia (magari rannicchiato sotto un tavolino perché troppo piccolo) dice che il poeta era molto sospettoso e se alla riunione partecipava qualche volto nuovo lui, prima di iniziare la recita, si informava sull’ultimo arrivato e non iniziava fino a quando non avesse fugato ogni sospetto. Con una vena straordinaria e una fantasia sbrigliata Isaia non aveva rivali. L’unico appunto che gli si può imputare è la mancanza di rispetto verso il bersaglio delle sue satire. A rischio anche di denuncia per diffamazione.

Isaia era solito fare nome e cognome della persona ridicolizzata. E questo in maniera particolarmente feroce se si trattava di un’autorità, fosse essa politica o religiosa. Tra queste i preferiti erano il podestà e il parroco. Dei suoi paesani non se ne salva uno. Il suo paese? “Vilabêrs l’ê ‘na paròchia – cuma i’ dîši, bên cumposta: -...a gh’é di fûrb, e d’j’istruî, - d’i’ ignurânt e d’i’imbambî”. Non li poteva attaccare dal lato culturale perché erano quasi tutti analfabeti e allora ne ridicolizzava i difetti fisici con epiteti da trivio: cla pursèla d’ la ***; cul mèš màt ad ***; cul spurcaciûn d’ ***; cul trampèl d’ ***.

È rimasta famosa l’esecrazione rivolta al podestà dell’epoca, reo d’essersi interessato per recuperare scarpe usate da distribuire gratuitamente ai bisognosi del comune: “Bârba grîša d’un cretîn, - li vöt dâr ai cuntadîn? – Dio te fulmina int la vìsta, - tînli e dàli ai tö fascista! – Perché i’ n’ gh’èm gnân da tribulâr – a s’ vöt gnîr anch a impestâr”?

E la gente che ascoltava? Reagiva con risate chiassose o con atteggiamento da finti scandalizzati, ma, alla fine, soddisfatti d’avere ascoltato l’aedo montanaro. Almeno fin quando la satira non li toccava. Una volta rientrati al villaggio facevano a gara a ripetere a memoria quanto avevano ascoltato. Qui occorre dare merito alle memorie di quel tempo: bastava che le persone ascoltassero una o due volte un componimento e lo ripetevano quasi completamente a memoria. Sarà perché allora non avevano tante nozioni da ricordare. Sarà anche perché la vita si svolgeva con un ritmo più umano, ma resta il fatto che bastava loro poco per memorizzare poesie, preghiere, canzoni o racconti. Se poi qualcosa proprio sfuggiva vi era chi riusciva a supplire con rifacimenti personali tali da non destare alcun sospetto nell’ascoltatore. A meno che non si trattasse di qualcuno dal palato fino e dalla conoscenza approfondita dell’opera del poeta principale.

Di che cosa parlavano i satirai per avere argomenti nuovi ogni settimana? Beh! Non è detto che l’esibizione avesse luogo tutti i lunedì. Il lavoro dei campi spesso impediva di recarsi al mercato, specialmente in estate. Dobbiamo comunque farci un’idea chiara di come funzionava l’informazione pubblica in quell’epoca: prendere il giornale era tempo e soldi sprecati. Quasi nessuno sapeva leggere. Le informazioni viaggiavano oralmente tramite appunto l’incontro al mercato e tramite i venditori ambulanti. Di conseguenza potevano anche essere incomplete o deformate. Come argomento però, da che il mondo è mondo, prevale quello un po’ pruriginoso delle corna, del tradimento. Poi vengono i fatti di cronaca nera, seguiti dalle disavventure di chi ha ereditato una porzione scarsa di cervello. E per tornare ad Isaia possiamo dire che tutto fa brodo, ma prevale la lotta senza quartiere contro le autorità costituite. Sono noti a molti degli anziani i sei versi coi quali Isaia descrive i politici di tutti i tempi: “Pr’êser sêmpr’ in magiurânsa – lûr caplèt a crepapânsa – e pròpia a chi ch’a n’ fà mai gnênt – vîn d’ butìglia e pân d’ furmênt, - e pr’ i purîn ch’i’ han lavurâ – pân d’ mestûra e vîn turciâ”.

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