È novembre. Un albero enorme, maestoso come un faggio, si sta lentamente spogliando tra una massa di foglie gialle ai suoi piedi. Metafora della vita, in tutta la sua bellezza e la sua povertà. Lo fa discretamente, in mezzo ad un innumerevole serie di tombe. Sono solo stele di pietra, erette su un prato verdissimo. È un cimitero inglese. Secondo me non c’è cosa al mondo che mi parli meglio della pace e del riposo che la morte regala.
Il luogo è un prato sconfinato con piante, arbusti verdi, lapidi sparse con una scelta di frasi affettuose, scritte sulla pietra dall’anima di qualcuno. “God gently close your loving eyes”, vi trovi descritta la delicatezza di Dio. “In our hearts forever”. Panchine di legno disperse con una dedica, “in loving memory”, invitano a meditare. Pare quasi che il sentimento si risvegli in questi luoghi, nei quali anche un inglese generalmente compassato lascia intravedere il proprio cuore.
Sto accompagnando Maria, un’emigrante abruzzese. Dopo una breve preghiera, viene calata in fondo alla terra, a più di due metri di profondità. Con quale pena osservo i suoi cari farsi coraggio mentre la guardano scendere verso il buio, lasciandovi cadere una manciata di terra o una rosa. Ultimo gesto, ultimo atto di una vita. Fatto con naturalezza, come tutti gli inglesi. Poi, sento suonare una campana all’entrata del cimitero, arriva un altro convoglio funebre, e mi vengono in mente le parole di Hemingway: “Ogni morte d'uomo mi riduce, perché io faccio parte dell'umanità. E, dunque, non chiedere mai per chi suona la campana. Essa suona per te”.
Il senso del morire è il senso più vero che accompagna un migrante. Ci si sente provvisori in ogni dove. Ci si ricorda di essere di passaggio in ogni terra: in quella di accoglienza come in quella di origine. Si nutre un senso di provvisorietà, che paradossalmente trasmette una forza segreta: una formidabile voglia di vita.
Non è, infatti, il senso della morte o della sua paura, ma un sentimento più profondo e interiore: la certezza che io morirò. È la lucidità di terminare, un giorno, di esistere. Un senso della finitudine da coltivare come un fiore. Disarma d’incanto il nostro segreto senso di onnipotenza ed è un monito prezioso a chiunque abbia una responsabilità. Insegna a vivere il senso del limite, del tempo e della vita che vi porta. A non essere avidi di eternità.
Mi sembra quasi di vedere i nostri emigranti avvicinarsi all’orecchio dei potenti – di chiunque senta le vertigini del potere, per cui tutto sembra girare attorno a lui - per sussurrare: ricordati che sei mortale. Il tempo è limitato, nonostante il nostro sogno di onnipotenza. E pare sentirli cantare il loro canto, il magnificat. Sono le meraviglie di Dio compiute nell’umiltà di una vita, di un’esistenza senza radici. Esistere, in fondo, è un dono grandioso ma provvisorio.
Allora, in questo cimitero inglese apro lo sguardo ai vicini di Maria. Vi è una lapide dai caratteri in russo, una con un pezzo di Corano per qualcuno nato a Shangai, ma che ha terminato i suoi giorni proprio qui. Un’altra con tre colonne verticali di caratteri dorati orientali lascia nel mistero e poi ancora una scritta in spagnolo, con una tenera preghiera alla Vergine...
Così si vive. Così si muore. Il senso del mondo ci insegue fino all’ultima tappa del nostro viaggio. L’altro fa parte di noi. Ma è il senso della provvisorietà che resta come sua regola d’oro. Indica, in fondo, la vita e il breve tempo in cui essa ci prende per mano.
(Renato Zilio, missionario a Londra)