Reggio Terzo Mondo, presente in Madagascar con i primi volontari già dagli anni ’60, si appresta a celebrare insieme al popolo malgascio il cinquantenario dell'indipendenza del Madagascar avvenuta il 26 giugno del 1960. Non possiamo allora non festeggiare con loro questo anniversario anche se se non sarà una ricorrenza segnata dalla gioia a causa del clima di incertezza politica e difficoltà economica, conseguenza della crisi politica che ormai da un anno e mezzo attanaglia il paese. Al di là dell’attuale congiuntura, in questi 50 anni la situazione del paese non è di certo migliorata: la popolazione si è quadruplicata, passando da 5.183.000 abitanti a 20 milioni nel 2010 (con una densità che è tuttavia ancora un quinto di quella italiana), ma il Pil pro capite si è dimezzato. Se nel 1960 con un’ora di lavoro al salario minimo si poteva acquistare un chilo di riso, oggi ne servono tre. Per non parlare dell’insicurezza ormai diffusa in un paese che quasi non conosceva le armi da fuoco e del rapido declino della solidarietà familiare, quel “fihavanana” che era un valore-simbolo della cultura del paese.
Dalla sua costituzione nel 1973 ad oggi, RTM ha vissuto fianco a fianco al popolo malgascio grazie alla presenza e all’intenso lavoro di centinaia di volontari che hanno accompagnato le comunità locali attraverso progetti in ambito agricolo e di sicurezza alimentare, sanitario, di artigianato e commercio equo. Si potrebbero citare i tanti numeri di bambini che hanno potuto essere vaccinati e frequentare una scuola, di malati che anno potuto trovare una cura, di agricoltori che hanno trovato un sostegno, di artigiani che hanno trovato un mercato, di produttori che hanno ricevuto una formazione, ma per chi ha avuto la fortuna di incontrarsi con la gente, ospitale ma riservata, che abita l’Isola Rossa, i veri risultati sono i volti di stranieri che, dapprima tutti uguali, ora si riconoscono reciprocamente nella loro individualità. Volti di persone con le quali si collabora, a volte a fatica; con le quali a volte si litiga, ma che nondimeno possiamo ora chiamare fratelli.
Festeggiando oggi i 50 anni dall’indipendenza l’augurio che esprimiamo ai nostri amici del Madagascar è che vengano riconosciuti nel concreto i diritti di tutti, e soprattutto dei più deboli, e che, parallelamente, la comunità internazionale e le singole potenze, quelle europee comprese, possano riconoscere la pari dignità dell’altro e del suo diritto ad autodeterminarsi, non solo in termini teorici, ma reali sostenendo le buone pratiche locali e astenendosi dal perseguire le prassi politiche e commerciali contrarie al bene comune.
Informazioni: Reggio Terzo Mondo, Maddalena Cattani, tel. 0522 514205, mail: [email protected], web: www.reggioterzomondo.org
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MADAGASCAR : 50 ANNI D’INDIPENDENZA. C’E’ DA FESTEGGIARE?
La storia di questo ultimo mezzo secolo accomuna molti stati africani, per i quali l’inizio degli anno ’60 è stato il periodo di liberazione, almeno formale, dal colonialismo di origine ottocentesca. Il percorso del Madagascar è per molti versi emblematico del continente, dal quale tuttavia è staccato, rimanendo quindi riparo dalle scosse transfrontaliere (guerre, profughi, ecc.) che hanno segnato molti altri stati che hanno raggiunto l’indipendenza nello stesso periodo.
Dopo l’euforia del distacco dalla Francia del 26 giugno 1960, guidato da Philibert Tsiranana, un regi-me militare, quasi da subito guidato dall’Ammiraglio Didier Ratsiraka ha retto il paese dal ’72 fino al ‘91. Era « di moda » a quei tempi il socialismo « africano », e anche l’Ammiraglio scrisse il suo libretto rosso, senza riuscire a portare il paese verso lo splendente sol dell’avvenire, ma accumulando in compenso una discreta fortuna in Francia. La quale, come tante altre potenze ex-coloniali, aveva tro-vato dal canto suo il modo di continuare a far fare affari alle proprie imprese. Il malcontento popolare, guidato anche da ex-gerarchi, e soffocato nel sangue nell’agosto del ’91, fu l’inizio della fine del regi-me … ma non dell’Ammiraglio! Dopo la breve parentesi del Professor Albert Zafy, che non seppe o poté guidare il paese in una strada diversa, ecco che Ratsiraka nel ’96 viene rieletto al potere, stavolta in versione “umanista ed ecologista”, purtroppo senza che la sostanza cambi: basti citare le ricche concessioni minerarie intestate al figlio del Presidente. Ma una sfida reale viene dal sindaco della capitale, il plutocrate Marc Ravalomanana, che alle successive -e contestatissime- elezioni sembre-rebbe vincere addirittura al primo turno. Il paese ne esce letteralmente diviso in due per parecchi mesi, finché nel giugno 2002 l’appoggio decisivo degli USA fa propendere la comunità internazionale verso il riconoscimento dello sfidante. Il quale, da uomo pragmatico e decisionista qual è, può registrare qualche successo nella riabilitazione di tante infrastrutture, da tempo fatiscenti. Non dimenticando tuttavia di estendere il controllo diretto delle sue imprese su moltissimi settori dell’economia, senza che questo avesse ricadute positive sulla popolazione, tra la quale anzi le disparità sociali aumentano. La misura viene colmata dall’annuncio della vendita di un milione di ettari di territorio nazionale ad una multinazionale coreana. Limitare la libertà di esprimere il crescente disagio della gente è una tentazio-ne alla quale anche Ravalomanana non sa resistere, e chiude anche la televisione del suo successore come sindaco di Antananarivo, Andry Rajoelina. Il quale, con un passato da disc-jockey, riesce a ca-valcare abilmente il malcontento e la protesta, riesce nel marzo 2009 a esiliare il Presidente – almeno provvisoriamente- e a guidare una “transizione” della quale ancor oggi non si vede la fine.
C’è ben poco da festeggiare dunque per questi 50 anni di indipendenza: gli “uomini della provvidenza” che si sono succeduti alla guida non hanno saputo trasformare il paese, se non in peggio: Se la popo-lazione si è quadruplicata dal 1960, passando da 5.183.000 abitanti a 20 milioni nel 2010 (con una densità che è tuttavia ancora un quinto di quella italiana), il PIL pro capite si è dimezzato. Se nel 1960 con un’ora di lavoro al salario minimo si poteva acquistare un chilo di riso, oggi ne servono tre. Per non parlare dell’insicurezza ormai diffusa in un paese che quasi non conosceva le armi da fuoco, del rapido declino della solidarietà familiare, quel “fihavanana” che era un valore-simbolo della cultura del paese.
Se cerchiamo le cause di questo scacco, tipico purtroppo di tanti stati africani (anche se non di tutti), non possiamo sorvolare sulle innegabili responsabilità interne: la rapacità dei dirigenti, il fatalismo dei cittadini, la poca incisività della cosiddetta “società civile”. Ma non possiamo esimerci dal chiedere qual è stato l’apporto della comunità internazionale: il sostegno che soprattutto la Francia, ma anche altri hanno dato all’uomo forte di turno ha forse fruttato loro in termini di privilegi commerciali, ma non ha certo contribuito ad aumentare la giustizia sociale, né a far uscire il paese dalla morsa della pover-tà. Non sembra neppure che la situazione possa migliorare se all’influenza dei paesi occidentali si sostituisce quella dei cosiddetti “emergenti”, come le potenze asiatiche, la cui fame di terre e di risorse energetiche non lascia tranquilli sulle prospettive di mantenimento della sovranità nazionale effettiva per le piccole nazioni africane. Le istituzioni finanziarie internazionali poi, come ad esempio il FMI, hanno dato al paese un contributo di dubbio valore: ad esempio, per decenni non hanno certo spinto perché l’istruzione o la sanità pubbliche fossero rafforzate, ampliando di fatto –se non nelle intenzioni- gli squilibri sociali. Gli aiuti internazionali, pur in misura insufficiente, sono stati erogati, ma per la mag-gior parte incanalandoli attraverso la struttura dello stato centrale, e trascurando di verificarne l’efficienza distributiva, che in qualche caso non è andata al di là del clan di qualche ministro. Infine, le strutture confessionali e le ONG, pur con luci e ombre, hanno fatto la loro parte, ma la loro azione poteva essere solo di complemento a quella statale, non avendo le forze (né il mandato) per rimpiaz-zarla completamente.
RTM, presente in Madagascar con i primi volontari già dagli anni ’60, ha vissuto e sofferto con la gen-te, per quasi tutta la durata di questo percorso e, opportunamente, si chiede oggi cosa è rimasto dei tanti progetti e interventi di centinaia di volontari che si sono affiancati ai missionari prima, e successi-vamente al personale locale e alle tante persone di buona volontà che da anni lavorano per il loro paese. Si potrebbero citare i tanti numeri di bambini che hanno potuto essere vaccinati e frequentare una scuola, di malati che anno potuto trovare una cura, di agricoltori che hanno trovato un sostegno, di artigiani che hanno trovato un mercato, di produttori che hanno ricevuto una formazione... Ma per chi ha avuto la fortuna di incontrarsi con la gente, ospitale ma riservata, che abita l’Isola Rossa, i veri risultati sono i volti di stranieri che, dapprima tutti uguali, ora si riconoscono reciprocamente nella loro individualità. Volti di persone con le quali si collabora, a volte a fatica; con le quali a volte si litiga, ma che nondimeno possiamo ora chiamare fratelli.
Non possiamo allora non festeggiare con loro anche questo anniversario, anche se se non sarà una ricorrenza segnata dalla gioia. Crediamo infatti che la strada giusta è comunque quella dell’indipendenza, intesa come riconoscimento della pari dignità dell’altro e del suo diritto ad autode-terminarsi, non solo in termini teorici, ma reali. L’augurio che esprimiamo ai nostri amici del Madagascar quindi è che tra di loro per primi vengano riconosciuti nel concreto i diritti di tutti, e soprat-tutto dei più deboli, e che parallelamente la comunità internazionale e le singole potenze, quelle europee comprese, sostengano queste buone pratiche e si astengano dal perseguire le prassi politi-che e commerciali contrarie al bene comune planetario.