I fatti sono noti. Quando, dopo il 10 giugno 1940, la guerra cominciò a diradare le presenze nelle aule della Cattolica, quando iniziò a spegnersi il baccano della sala da ping-pong, don Sergio ebbe chiaro che il suo posto era, allora più che mai, accanto ai giovani. Dello stesso avviso era anche padre Gemelli che, avendone intuito le doti di educatore, tanto s’era dato da fare, nel 1937, per “strapparlo” al seminario di Reggio. I due, però, divergevano sul dove e sul come. Mentre il fondatore e rettore dell’ateneo lo voleva a Milano, da dove abrebbe potuto continuare i contatti epistolari fittissimi con i giovani studenti chiamati alle armi, don Sergio avvertiva l’esigenza di seguire i giovani nei luoghi stessi dove la guerra li portava: sulle ambe africane, sui monti d’Albania, sulle navi della Marina Militare.
Furono proprio le intese che don Sergio ebbe con l’Ordinariato Militare per studiare e coordinare l’assistenza spirituale a questi giovani chiamati, di punto in bianco, a rivestire gradi militari e ad assumere oneri di comando, che lo misero in luce sia presso il vescovo castrense, monsignor Bartolomasi, sia presso il suo vicario generale mons. Rusticoni, e che si conclusero, il 13 luglio 1940, con l’arruolamento come cappellano militare in marina, imbarcato, sulle navi ospedale Po e Toscana. Dal carteggio giacente presso l’archivio dell’Ordinariato Militare a Roma si intuisce chiaramente come padre Gemelli abbia acconsentito al suo arruolamento pensando a un impegno del tutto “estivo”. E, in effetti, il suo arruolamento è temporaneo. Ciò era in tono con quanti pensavano alla blitzkrieg come all’avventura di qualche mese. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente; ma padre Gemelli, passata l’estate, iniziò un braccio di ferro per riportare don Sergio all’Università.
NON SONO UN “VOLONTARIO”
Alcuni pezzi del carteggio, solo parzialmente pubblicati, chiariscono ora alcune cose. Ad esempio, che don Sergio non si è arruolato “volontario” nel senso che allora si dava alla parola (e come sembra intendesse padre Gemelli), cioè per scelta dettata da infatuazioni guerresche tipiche della propaganda di regime. Che cosa ne pensasse della guerra, egli lo aveva detto chiaramente in una conferenza pubblica tenuta a Castelnovo ne’ Monti il 22 aprile 1937 meritandosi il biasimo indignato dei fascisti reggiani.
Egli si arruolava per un preciso “obbligo” morale conseguente all’impegno di assistente dei giovani universitari,come fecero, del resto, i suoi amici don Carlo Gnocchi e padre Giulio Bevilacqua. Don Sergio, infatti, vedeva il suo nuovo compito come la continuazione di quanto aveva fatto finora nell’università e in quei panni continuava a vedersi nonostante le stellette. Lo dimostra il fatto che tutta la sua corrispondenza militare continuerà ad essere scritta su carta intestata dell’Università Cattolica. Dal suo modo di vedere, dunque, egli non aveva affatto abbandonato né l’università né i giovani.
Non la pensava così Padre Gemelli che, a settembre 1940, sospettando che don Sergio potesse non ritornare entro l’apertura dell’anno accademico, scriveva al vescovo castrense monsignor Bartolomasi chiedendogliene il congedo e ricevendone, in risposta, picche. La segreteria dell’Università – affermava il vescovo con le stellette – può funzionare anche con un altro sacerdote, ma il servizio che don Sergio svolge sulla nave Po è delicatissimo.
Padre Gemelli si rivolse allora a don Sergio con tono di rimprovero: «Vede in quali impicci mi ha messo domandando di andare volontario come cappellano. Bisogna che si adoperi sollecitamente per fare in modo di ritornare. Per quanto sia importante il compito che svolge costì, quello che deve svolgere fra gli studenti è molto più grave ed urgente».
Tutti e due miravano allo stesso scopo, ma da angolature ben diverse. L’incontro non era facile. Un abboccamento a Milano, attorno al 23 settembre, ebbe esito disastroso. Scriveva don Sergio a monsignor Rusticoni, vicario generale militare: «Padre Gemelli è furibondo con me: ho avuto con lui un colloquio di un’ora e non sono riuscito a persuaderlo di non essere “un volontario”».
«RESTARE IN MARINA»
La lunga lettera esprime la lotta interiore di don Sergio: da una parte «il dovere di obbedienza e il legame profondo di affetto che mi lega a padre Gemelli e alla Università»; dall’altra «le fisionomie dei miei ufficiali e dei miei marinai», cioè dei suoi studenti che egli ha ritrovato sui luoghi di comando delle navi e dei semplici marinai che ha imparato a conoscere e ad amare.
La sua decisione è scontata. Non se la sente di continuare a dire parole di conforto e di incoraggiamento a chi porta nella sua carne le ferite della guerra, o a chi rischia la vita stessa su quegli obiettivi militari che sono le navi in armi, standosene sicuro nella sede universitaria. Per quanto valgano le parole di carta, egli avverte che, nelle contingenze della guerra, occorre trasformarle in contatto personale, in condivisione senza riserva: «Vorrei essere sempre con loro. Perché con loro mi trovo veramente bene, e La ringrazio di avermi mandato qui. Per conto mio sarei andato più che volentieri anche su navi da guerra o, meglio ancora, in linea».
Il condizionale appartiene allo stile del suo dialogo che vuol convincere e non imporsi; deciso nelle sue scelte, anche se ponderate con ogni scrupolo sul consiglio dei superiori religiosi e militari ai quali si dichiara sempre ubbidiente.
Al fondo di tutto, valutazioni esclusivamente sacerdotali e di fedeltà all’impegno assuntosi di assistere i giovani, dove essi ne hanno più bisogno; dove letteralmente c’è la prova del fuoco. Un senso del dovere che i comandanti militari definiranno «vera passione all’assistenza spirituale degli equipaggi», meravigliati di questo cappellano che stava in mezzo agli uomini con «vera bontà», con «giusto tono di cameratesca cordialità, mai disgiunta, però, sia sugli atti che sulle parole, dalla dignità del suo stato», che chiede di partecipare alle missioni più rischiose anche quando potrebbe restarsene in retrovia.
Il vescovo castrense è dalla sua: «Monsignor Bartolomasi mi ha mandato un pensiero e la raccomandazione di restare in Marina». Padre Gemelli verrà messo a tacere con la promessa che don Sergio tornerà da lui, definitivamente, a fine gennaio 1941.
DOVE SI SOFFRE E SI PUÒ MORIRE"
Dopo i primi fatti di guerra coinvolgenti in modo pesante la Marina, posto di fronte alla prospettiva del congedo per le continue insistenze di padre Gemelli, egli vede l’abbandono del posto di cappellano militare come una fuga dai suoi obblighi. La cosa gli si fa chiara quando apprende la notizia che la sua nave ospedale ha preso il largo senza di lui.
Ecco, per intero, una sua lettera dell’8 gennaio 1941 a monsignor Rusticoni: «Vi scrivo una cosa che vi farà piacere perché diverse volte Voi stesso me l’avete consigliato: ho fatto un ultimo tentativo coi miei superiori universitari per restare su la Po. Ho scritto oggi a Monsignor Olgiati in questo senso: - dati gli avvenimenti attuali, non mi sento, in coscienza, di abbandonare il mio posto; quindi non insisto presso l’Ordinariato per il congedo a fine gennaio - scrivo anzi per rimanere in servizio.
Questo il senso della lettera. Come vedete, mi sono assunta la responsabilità di questo passo davanti all’Università. Per conto mio, in questo momento, il sacerdote sta bene ove si soffre e ove si può morire. A questa decisione (che, credo, sarà bene accolta da padre Gemelli e da monsignor Olgiati e Panighi) mi ha spinto la piega dei fatti attuali, e non poco l’amicizia dei miei ufficiali e marinai e dei carissimi feriti.
Ho fiducia, quindi, di poter restare ancora vicino a voi nel lavoro e nelle comuni speranze. Dopo la prossima missione, il mio Direttore mi manderà a Roma e verrò a trovarvi per combinare un piano di persuasione cristiana per i miei amatissimi e degni superiori di Milano».
Il passo avviene e ora don Sergio sente impellente il dovere di avvicinarsi sempre più alla “linea”, come usa il gergo militare, cioè a quelle navi che sono a contatto col nemico, dove appunto sofferenza e morte sono dietro l’angolo. L’Ordinariato Militare gli rimprovera bonariamente l’uso imperterrito della carta intestata dell’Università Cattolica («forse che la Marina è così povera da non avere un po’ di fogli per i suoi cappellani?!»); ma appare chiaro che quello è, per don Sergio, l’espediente per far entrare padre Gemelli nelle sue vedute, senza mai riuscirci pienamente, nonostante che anche lui sia stato cappellano militare «e certe cose – osservava monsignor Rusticoni – dovrebbe capirle».
Non che a don Sergio piaccia il pericolo. La sua formazione è del tutto aliena dalla retorica del tempo. Sa, però, che nei luoghi e nei tempi del pericolo, caduta ogni esteriorità, ciò che conta davvero, ciò che salva anche davanti alla morte, è quell’amicizia capace di donare tutto, anche la vita, senza condizioni ed egoismi: cioè la carità evangelica, la più pura. Qui egli diventa davvero “principe dell’amicizia”.
SUI CACCIA TORPEDINIERE
La lettera del 2 giugno 1941, scritta in fretta, con trattini telegrafici in luogo della punteggiatura, fotografa il suo programma di vita e di apostolato sulle navi: «Reverendissimo Monsignore, nella Vostra ultima - mandandomi elenco documenti per ruolo ausiliario - avete dimenticato il fatto: nave da guerra. È una dimenticanza diplomatica? Però io non posso resistere dal fare insistenza - ora più che mai ne sento il bisogno.
Ieri, invitato dall’Ammiraglio di Divisione, sono andato a celebrare sul Giovanni delle Bande Nere - ove era venuto anche l’equipaggio di un altro incrociatore. Sono stati gentilissimi tutti - e io entusiasta - Ma il bello viene qui: mi hanno detto che desiderano vivamente un cappellano - che la sua mancanza si sente in tutta la Divisione - che ci sarebbe da fare tanto (erano gli stessi comandanti a dirlo) come prime comunioni ecc.
Mi hanno anche detto (non faccio nomi) - l’Ordinariato Militare dimentica un po’ la Marina -. Io mi sono arrischiato a far presente ciò che Voi una volta mi avevate detto: “Non è possibile - mancherebbe persino l’alloggio per il cappellano” - Mi è stato risposto che su uno o su l’altro degli incrociatori si può trovare benissimo l’alloggio - Concludendo: vi chiedo in ginocchio di accettare la mia domanda - Nel caso abbiate difficoltà per ragioni di “organico” (mi esprimo bene?) - penserò io a fare la faccia tosta anche presso lo stesso Sottosegretario di Stato alla Marina - Tenterò tutte le vie: a questo sono deciso. Perché credo doveroso che noi sacerdoti - soprattutto noi che viviamo vicino agli studenti e tante chiacchiere facciamo loro - siamo dove maggiore è il pericolo e più urgente il bisogno di Dio. Sono certo che mons. Rusticoni - ancora così giovane di anni e di cuore - vorrà ascoltare le voci della giovinezza sacerdotale. Non bisogna lasciar passare questa primavera di slanci - Occorre che noi sacerdoti per primi ci purifichiamo col sacrificio e diamo esempio di serenità.
Monsignore, Vi prego vivamente di ascoltarmi. Pregherò tanto per voi e Voi ricordatemi a Dio perché viva della sua carità. Con molto affetto, don Sergio Pignedoli
P.S. - Su una nave ospedale può andar bene anche un sacerdote di una certa età - che non debba sfacchinare. Colui che venisse su la mia nave avrebbe già le cose avviate: l’equipaggio ben disposto col sacerdote - una bellissima cappellina - la biblioteca - e anche un Collega sacerdote tedesco! Un Paradiso!! Io ho però bisogno del Purgatorio!!!»
La sua domanda sarà accolta. Il 17 luglio 1941 è iscritto nel ruolo della riserva dei cappellani militari della Marina. Dal 9 dicembre 1941 sarà sulle corazzate Giulio Cesare, Duilio e Doria. Dall’agosto 1942 fino al maggio 1943 il suo libro personale d’imbarco segna ripetuti passaggi sui Cacciatorpedienere Granatiere, Premuda, Vivaldi, Geniere, Folgore, Lampo, Corazziere, Mitragliere, Da Noli, Vivaldi, Gioberti, Bombardiere, Bersagliere, Zeno, Legionario, Pigafetta, Malocello, Camicia Nera, Mitragliere, Dardo. E ci sono pure quattro imbarchi sull’incrociatore Attilio Regolo.
L’8 settembre 1943 lo coglie mentre si trova a Roma, in missione presso l’ammiraglio Bergamini, senza più possibilità di ritornare alla base della Spezia. Proprio a Roma, insieme a monsignor Giovanni Battista Montini inizierà un’altra attività di carattere resistenziale. Uno piccolo squarcio lo ha sollevato Giulio Andreotti quando, pochi anni or sono, accennava all’aiuto dato da don Sergio a Gonella per deviare – «con stratagemmi da libro giallo» – viveri dall’annona vaticana ai carabinieri alla macchia. Ma è una storia ancora tutta da scoprire e da scrivere.
(tratto da La Libertà, 17 giugno 2000, con aggiornamenti)
Don Pignedoli
Bella, bella, bella, questa storia vera. Questo è essere veri uomini, un dono divino. Curare le piaghe altrui, ha lo stesso valore del nome grande di Padre Gemelli. Meno conosciuto, Don Pignedoli, dagli uomini, dell’altro grande nome, ma ben grande, agli occhi di Cristo, che di piaghe se ne intendeva bene.
(Graziella Salterini)
Non un commento, ma una domanda: dove si può trovare il testo della rubrica “Lettera ai militari” nella quale Don Pignedoli sostiene “… si può fare il proprio dovere di combattenti fino in fondo senza odiare il nemico”. Ne scrive Giulio Andreotti nel suo “De Gasperi da vicino” Rizzoli 1986, p. 28.
(Marius Trento)
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Anche se si tratta di richiesta e non di commento, ovviamente pubblichiamo, nell’augurio che qualche lettore possa esserle d’aiuto.
(red)
Mio padre, ammiraglio di squadra – quarant’anni di servizio, quattro croci di guerra – fu suo amico sul Bande Nere e sull’Attilio Regolo. Ovviamente nei conclavi del 1978 tifava per lui
(Guglielmo Evangelista)