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Noi (non) siamo quello che facciamo: essere il problema o avere un problema?

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“Con il termine personalità si intende l'insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità comportamentali che definiscono il nucleo delle differenze individuali, nella molteplicità dei contesti in cui la condotta umana si sviluppa.” (cit)

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La personalità solitamente è vista come l'espressione compiuta dell'individuo nelle sue componenti morfologiche e fisiologiche, intellettive, cognitive, volitive e sociali, comportamenti che sono irripetibili nelle loro caratteristiche soggettive. E’ intesa come un insieme di componenti, come temperamento, carattere ed istinto.
Il temperamento è la componente che l’individuo eredita come modalità di adattarsi e reagire all'ambiente. Il carattere è ciò che si forma con l'interazione dell'ambiente, mentre l'istinto è la reazione innata che si attiva di fronte ad un determinato stimolo.

La nostra personalità determina il nostro modo di agire/reagire in relazione con altri soggetti, altri oggetti, in generale con l’ambiente: in sostanza, la nostra personalità definisce il nostro comportamento; a nostra volta, sulla base di quest’ultimo veniamo giudicati dagli altri e - sembra paradossale - ci formiamo anche l’idea di noi stessi. La conoscenza di sé, infatti, non è un elemento innato nell’individuo, ma si forma (già intorno ai due anni di vita) a partire dall’osservazione del modo in cui noi stessi reagiamo rispetto alla realtà che ci circonda, sulla base di una serie di apprendimenti, determinati da tutti quei fattori precedentemente citati, che costituiscono appunto quello che definiamo il comportamento. Vale a dire che, fino a quando non ci “osserviamo”, le nostre azioni rimangono sostanzialmente inconsce: divengono consapevoli nel momento in cui ne prendiamo atto, osservandole. Il ragionamento che la nostra mente arriva a fare, è più o meno di questo tipo : “Se mi batte il cuore, sono agitato ma allo stesso tempo felice in presenza di quella persona, evidentemente sono innamorato!”

Questo pattern mentale che caratterizza ciascuno di noi però, può, in determinate occasioni, trarci in inganno. Se arriviamo a farci un’idea positiva di noi stessi quando conseguiamo un successo, allo stesso modo, quando commettiamo degli errori, da cui la vita di ogni persona è inevitabilmente costellata, potremmo confondere noi stessi con gli eventuali problemi che agli errori spesso seguono.
Ovvero: la persona si identifica con lo sbaglio, dimenticando se stessa.

Avere un problema è ben diverso dall’essere un problema. Ne sanno qualcosa gli operatori del vasto mondo delle dipendenze: un problema con l’alcol non definisce una persona, ma solo un tratto espressivo (pur grave) di una più insita difficoltà.

Molte persone, a torto e ragione, ritengono che commettere ripetutamente errori le possa portare ad essere persone sbagliate. Arrivare a questa conclusione, farsi un’idea di sé come una persona “brutta”, “negativa” o “fallita”, pone il rischio concreto di bloccarsi in un pessimismo che rende impossibile reagire al problema ricercando soluzioni.

Molte persone confondendosi con l’errore semplicemente non accettano quelli che, in quel momento, sono soltanto i loro limiti e debolezze; si tratta di condizioni transitorie e passeggere che “umanamente” parlando divergono molto dalla persona che, prima di ogni carattere negativo e/o patologico, è un essere umano con un nome, con una storia pregressa, con delle abilità espressive attive e potenziali, con delle preferenze estetiche ecc ecc..

L’essere un problema, piuttosto che avere un problema, divenire l’errore piuttosto che l’aver commesso (una o più volte) uno sbaglio, porta la persona ad identificarsi con l’oggetto “sbagliato” confondendosi e non riconoscendosi all’interno della sua identità. E ovviamente a non accettarsi come essere umano, pertanto FALLIBILE ed imperfetto per definizione.

Il lavoro, forse il più importante che viene svolto, ad esempio, nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare, è la ricostruzione dell’identità precedente o posteriore il sintomo alimentare. La persona che vive pensandosi e valutandosi solamente in relazione al suo problema o sintomo tiranneggiante (peso, cibo, estetica, ecc) letteralmente non riesce a pensarsi senza di esso – condizione che spesso aggrava le forti e perpetuate resistenze del paziente rispetto il “cambiamento”, proprio perché non riesce a definirsi anche nelle cose più banali, al di fuori di un contesto dove in ogni istante tiranneggia un sintomo, da appagare, da controllare o da risolvere.
È allora molto importante, fondamentale, sollecitare il paziente a comprendersi “essere umano” e soggetto autonomo e dislocato dal sintomo, che pur tiranneggiandolo fa solamente parte della sua vita e ruota intorno la sfera della sua personalità più insita; ruota come vi ruotano e vi debbono ruotare tante altre condizioni, siano esse altri errori o nuove espressioni salubri del suo potenziale fisico e mentale. E lo stesso invito, è da riservarsi ad ogni persona pur priva di condizioni psico-patologiche, a vedere i problemi e gli errori come parti pur importanti della propria vita, ma non parti di “se stessi”.

Nel compiere questo importante processo di consapevolezza, c’è un passaggio fondamentale che spesso si tende a tralasciare:
la presa di coscienza del fatto che gli errori, gli insuccessi, sono un’occasione per imparare. Di fronte ai problemi della vita quotidiana, non dobbiamo ragionare come se avessimo solo due tipi di scelta, una completamente sbagliata e l’altra totalmente giusta. Anche quando in determinate circostanze cediamo alle nostre, lo ribadiamo, umane debolezze, è importante tener presente che è spesso proprio dall’insuccesso che troviamo la forza di reagire e di voltare pagine, una forza che magari nemmeno credevamo di avere. Se riuscissimo a comprendere che non siamo noi stessi l’errore, che non c’è qualcosa di sbagliato in noi quando facciamo delle scelte che ci pongono dinanzi a dei problemi, ma che sono queste stesse difficoltà la condizione irrinunciabile per raggiungere una meta, per maturare, per imparare a conoscere profondamente noi stessi e le nostre debolezze, vivremmo gli sbagli come delle occasioni che possono renderci forti come non accadrebbe se tutto andasse sempre per il verso giusto.

Comprendere la distanza e la separazioni del nostro vero essere dal risultato di comportamenti errati facilita non di poco l’accettazione e la comprensione di se stessi e degli altri, così come l’esperienza negativa agevola il percorso che ci permetterà di non commettere, in situazioni analoghe, lo stesso errore. Perché, come saggiamente diceva Jim Morrison : “Non è forte chi non cade, ma chi cadendo ha la forza di rialzarsi”. E magari noi aggiungiamo che, per tanti passi avanti che sempre facciamo, sono inevitabili alcuni passi indietro, “fisiologici”, quindi, e non “patologici”, utili a ricordarci che per raggiungere la serenità, ciascuno di noi deve superare gli ostacoli della vita.