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“Dare addosso ai preti è uno sport antico”

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Dare addosso ai preti è uno sport antico: i preti lo sanno! Lo sa anche la Chiesa che non sarebbe quella di Gesù Cristo se non conoscesse l’amarezza dell’Orto degli Ulivi, del tradimento, della violenza e della spoliazione del Calvario. Ma, nonostante tutto, il prete rimane il segno della presenza di Dio tra la gente, è l’uomo dell’Eucaristia e della Riconciliazione, dei gesti sublimi alla nascita e alla morte di ogni persona che a lui ricorre.

E’ l’uomo di Dio nelle situazioni di sofferenza, in quelle della gioia, nell’attenzione ai poveri, in un ospedale come nel carcere, scandalizzando la gente perbene quando vede nelle persone in prigione il volto di Cristo: «Voi mi rappresentate il Signore. Per questo io sono venuto; e, direi, per cadere in ginocchio dinanzi a voi, e per dire a ciascuno che siete degni di essere assistiti, amati e salvati». Sono le parole che Paolo VI ha rivolto a chi era rinchiuso nella casa di pena di Roma, Regina Coeli, le stesse che dicono i cappellani quando varcano la soglia di Rebibbia o dell’Ucciardone, di Opera o di Bollate.

«Perché questo avvenga, dice don Luigi Melesi, da oltre trent’anni a San Vittore, è assai importante avere coscienza del valore grandissimo del prigioniero che ho davanti: è un uomo! E l’uomo vivente è la gloria di Dio!». Paolo VI, arcivescovo a Milano nel 1960, rivolgendosi proprio a chi era rinchiuso in San Vittore, aveva dato loro dignità con queste parole: «Anche Gesù fu catturato e carcerato, anche Gesù fu processato, fu condannato, fu suppliziato come nessuno al mondo. E’ diventato Cristo vostro collega, vostro amico, vostro esemplare. Lo potete chiamare perché è più vostro che nostro; somiglia più a voi che a noi; la vostra condizione vi dà questo primato, questa prerogativa di avvicinarvi a Dio».

Don Luigi è uno dei tanti sacerdoti, che hanno varcato ogni giorno la porta del carcere, accogliendo l’invito di Gesù di andare tra chi vi è rinchiuso per aiutarlo a e consolarlo, tra chi si riconosce peccatore per portarlo all’incontro con il Dio della misericordia e del perdono. E in carcere i peccatori sono veramente tanti! Anche i disperati! Gli abbandonati! I soli! Avvicinarli con umanità, con cuore, li aiuta in un cammino di riflessione, di conversione, che li porta a riscoprire la possibilità di bene che hanno: grandi, nuove, forse rese maggiori e più consistenti dalle “sventure” che li hanno colpiti.

Domenica scorsa e lunedì nel carcere di San Vittore, c’è stata una grande festa per don Luigi che in un libro, dove si racconta la sua esperienza nella storica casa circondariale di Milano, viene chiamato “Prete da galera”. Vi è tornato dopo una lunga assenza per malattia: “Ci sei mancato!”, gli hanno ripetuto tutti, accogliendolo con un grande applauso. Per loro don Luigi è l’uomo della Speranza e della consolazione. Non si sta in carcere senza queste virtù, che nascono dalla passione per l’uomo, tipica del Buon Pastore del Vangelo: «Cerco di vedere le cose dal loro punto di vista, dice don Luigi, mi metto nella loro parte, provo “simpatia” per loro, fino a sentirmi nei loro panni, non mi interessa se sporchi, stretti o laceri. A loro ripeto le parole di Paolo VI: “Un solo peccato potete commettere qui: la disperazione. Togliete dal vostro animo questa catena, questa vera prigionia e lasciate invece che il vostro cuore si dilati e ritrovi i motivi della speranza».

Don Luigi, don Alberto, don Claudio, don Gino, don Daniele, don Sergio, i vari Don delle carceri milanesi, lombarde, d’Italia, con la loro dedizione agli ospiti rendono concreta la Speranza, risvegliando in loro la coscienza, portandoli ad incontrare Gesù Cristo, l’amico che si accompagna a loro per rincuorarli.

Leggendo “Prete da galera”, il libro scritto da Silvio Valota, ritrovi la bontà e l’ottimismo di don Cafasso e di don Bosco, due santi che hanno visitato le carceri. Il primo vi ha dedicato la vita intera, il secondo, dopo avere incontrato là dentro dei giovanissimi, ha inventato gli oratori per prevenire il male della devianza, del disagio che porta alla violenza, all’aggressività ontro se stessi o contro gli altri, al furto, allo sballo. Il suo era un metodo educativo rivoluzionario, alternativo alla repressione nella certezza che l’uomo cambia, non perché prende botte, è torturato, isolato ma perchè lo si avvicina con il linguaggio del cuore, alla lunga sempre “vincente”.

“Prete da galera” oltre a rispondere alla domanda di cosa ci fanno i preti in carcere, racconta di vite spezzate e ritrovate, di speranze calpestate e rifiorite, una conferma di quanto siano preziosi i preti cappellani tra coloro che hanno sbagliato e desiderano ricominciare da capo la loro vita.