Proseguono gli articoli di storia castelnovese che Corrado Giansoldati regala alla cittadinanza locale. Nel ringraziarlo di cuore - sapendo la passione e il tempo necessari alla loro stesura - annunciamo che, dopo che le pubblicazioni della serie L'archivio racconta sono andate avanti al ritmo circa di una al mese, per qualche tempo, dopo quello che segue, sospenderemo. Questo per motivi legati ad impegni dell'estensore. Che ovviamente ci auguriamo di ritrovare quanto prima.
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Via I Maggio, 1: un facile indirizzo nella toponomastica castelnovese. Una nota strada del centro storico che sta rapidamente mutando aspetto per via degli edifici che si vanno costruendo o restaurando ai suoi lati. Un bel palazzo recentemente ristrutturato e tinteggiato di civettuoli colori pastello, portante la targa con il numero civico “1”. Tutto questo, oggi. Ma in passato non era così. Agli inizi del 1831, per esempio, non esistevano né la strada con quel nome né, tanto meno, il suddetto edificio. Quel tratto di strada, infatti, era indicato sulle mappe come “Strada Maestra Comunale alla Borgata”. La “Borgata” era Castelnovo e la strada che, scendendo dalla “Maestà”, vi penetrava passando sotto la volta ancor oggi esistente, era l’antica Strada Ducale che, da secoli, collegava il reggiano con il mare spezzino e la Toscana: era detta, appunto, Strada della Lunigiana. Essa aveva sempre attraversato l’antico borgo fino a quando, attorno al 1825, venne realizzata la nuova variante “Maestà–Buio”. Nel 1831, dunque, si era in periodo di grande espansione urbanistica ed i castelnovesi cercavano di allargare i propri spazi vitali per troppo tempo compressi entro i ristretti confini del fascinoso, per noi oggi, ma a quei tempi angusto, umido, sudicio e scomodo castello, posto a ridosso del colle sul quale, per l’assenza dell’attuale pineta, erano ben visibili i resti dell’antica rocca matildica.
L’iniziativa dei due fratelli Rabotti
Ma ritorniamo alla “Strada Maestra Comunale alla Borgata”. Nella parte che ci interessa si affacciavano, a levante, due antichi ed importanti edifici: il cinquecentesco Palazzo del Bargello (così denominato nel catasto del 1784) cioè l’antica podesteria con la fonte sottostante, ora utilizzato come caserma dei Reali Dragoni, e l’Oratorio di S. Maria Maddalena, detto anche “del Castello” che era lì da circa tre secoli. Fra l’oratorio di S. Maria Maddalena ed il Palazzo del Bargello si stendeva un vasto prato che dal bordo della strada saliva fino alla sovrastante spianata ed era proprietà di alcuni membri della famiglia Rabotti, una fra le più importanti del paese. La parte più bassa, in particolare, cioè quella posta tra i due antichi edifici, apparteneva ai fratelli Gioachino e Giuseppe Rabotti. E fu proprio lì che, all’inizio del nostro anno 1831, costoro decisero di erigere un fabbricato ed a tal fine ottennero, il 24 aprile, la necessaria approvazione del Governatore di Reggio al quale avevano rivolto regolare istanza tramite il podestà di Castelnovo, Conte Antonio Dalla Palude. Potevano costruire, scriveva il Podestà, “effettuando le proposte offerte, da versarsi quanto a L. 30 a questa Cassa (ducale, ndr) e le L. 70 al Podestà” (ricordiamo che il Ducato era retto, a quei tempi, da Francesco IV d’Asburgo-Este che, dieci anni prima, aveva dovuto fronteggiare i primi moti carbonari facendo condannare a morte, per cospirazione, don Giuseppe Andreoli nel 1822 e Ciro Menotti in questo stesso 1831. Governatore della città e provincia di Reggio era il Conte Ippolito Malaguzzi. La sede municipale, ove stavano la residenza e gli uffici del Podestà, era poco più avanti, nel palazzo posto a ridosso della volta: era quello che attualmente ospita il “Caffè Italia”, ma a quei tempi l’ingresso era dall’altra parte, affacciato sulla Strada Ducale. Solo tre anni più tardi, nel 1834, il municipio sarebbe stato trasferito a Bagnolo, nel nuovo edificio posto di fronte al Palazzo Ducale e donato un anno prima dal Duca al Comune).
Gioachino Rabotti, che dei due fratelli era il più esposto forse perché più giovane ed intraprendente, dovette sentirsi molto sollevato nel ricevere quella comunicazione poiché, nell’attesa, aveva già iniziato e portato ben avanti i lavori della sua nuova “fabbrica”. Lo si deduce dalle carte che, da quel momento, entrarono in rapida successione a documentare questa vicenda che, come vedremo, si rivelò assai complessa (e lo è anche il raccontarla!) per la molteplicità e la peculiarità delle circostanze e dei personaggi che ne furono protagonisti. Conviene dunque lasciare la parola ai documenti, sintetizzando quanto più possibile.
Il 4 maggio 1831 l’Arciprete don Giuseppe Catti invia al Vescovo Mons. Filippo Cattani la seguente lettera: “Mi viene riferito che il Sig. Gioachino Rabotti di Castelnovo stia erigendo una Fabbrica in parte appoggiata al muro dell’Oratorio di ragione comune degli abitanti di quel Castello e che, per necessaria conseguenza, si occupi non solo in quella parte lo stillicidio, ma ben anche si chiuda una finestra dell’Oratorio stesso”. Poi l’Arciprete aggiunge di essere solamente “testimonio auricolare” di tutto ciò, essendo costretto a letto, per infermità, fin dall’inizio della Quaresima. “A fronte di tale indisposizione – prosegue don Catti – non sapendo se (…) sia stata o no interpellata l’Autorità Ecclesiastica ed essendo contraria tale innovazione anche a quanto prescrive la Costituzione XII, paragrafo 5, della “Sacrosanctis Ecclesiis” del Diocesano Sinodo, reputo irregolare concedere qualsiasi altro permesso al Rabotti. A pratica del mio dovere rendo di tanto informata con ogni segretezza la S.V. Ill.ma e Rev.ma per quelle misure che credesse opportune nel caso. Tanto più che sento che quegli abitanti sono disposti ad opporsi, facendo ricorso a Lei con una petizione. Dovendo Ella avere altre più sicure informazioni, La prego di escludermi e per mia quiete e per l’addotta fisica impotenza” (Don Giuseppe Catti, nato a Sarzano - Casina - era Arciprete alla Pieve dal dicembre 1823 quando era succeduto a don Giuseppe Marioni, il famoso prete missionario morto in concetto di santità il 21 giugno 1823 dopo soli sette mesi di permanenza a Castelnovo e che è ricordato da una lapide posta sul pilastro anteriore destro del presbiterio della chiesa della Pieve). L’Arciprete non fornì ulteriori spiegazioni in merito alla strana richiesta di potersi, di fatto, defilare dalla gestione di quella vicenda. Sicuramente vi concorsero le sue condizioni di salute. Egli poteva essere davvero sofferente dato che morì appena sette mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno 1831, a soli 47 anni. Ma c’era anche dell’altro, come si vedrà dal prosieguo del nostro racconto.
L’annunciata petizione fu inviata alla metà di maggio dai cittadini di Castelnovo ne’ Monti al Vescovo. Eccone il testo, solo lievemente ritoccato per consentirne una più agevole lettura.
“Gli abitanti di Castelnovo ne’ Monti, umilissimi e devotissimi servi della S.V. Ill.ma e Rev.ma, col più profondo rispetto Le rappresentano che da più secoli esiste nel loro paese un Oratorio di non indifferente ampiezza, che servì sempre e serve tuttora ai fedeli pel comodo quotidiano della Santa Messa ed agli altri esercizi di Devozione Cristiana a cui, in difetto dell’Oratorio stesso, non parteciperebbero la maggioranza dei medesimi abitanti nonché quelli delle ville vicine, attesa la distanza alla quale si ritrovano dalla Parrocchiale. Perciò il medesimo Oratorio fu sempre a cuore di tutti e niuno si rifiutò giammai di concorrere coi propri danari ed opera agli straordinari restauri di cui, in replicate circostanze, si trovò ad aver bisogno. Fu quindi sempre mirato con occhio di predilezione ed in nessun tempo vi fu persona che ardisse di appropriarsi di diritti a danno di esso, ben persuaso che, oltre alle censure ecclesiastiche, si esponeva alla indignazione certa degli abitanti del Paese ed all’opposizione delle Autorità Tutorie. Soltanto oggi, Monsignore, sprezzatosi ogni riguardo e guadagnatasi la protezione del Sig. Podestà del Comune, al quale niente interessa il bene del ripetuto Oratorio per essere estraneo al Paese (veniva da Montecchio, ndr), da parte di Gioachino Rabotti si sta erigendo una fabbrica immediatamente a contatto della Chiesa, mediante la quale non solo si viene ad occupare lo stillicidio di essa, ma anche a rendere in comune il muro settentrionale della nuova casa per la lunghezza di venti braccia circa (1 braccio = 53 cm., ndr) e quindi a chiudere un’ampia finestra esistente in detto muro, in cui si vuole formare una tribuna di comunicazione fra il nuovo fabbricato e l’interno della Chiesa. Monsignore: un tale lavoro è una lesione manifesta dei diritti del Paese, lesione che col tempo potrebbe portare conseguenze di scandalo se si rifletta sul malanimo con cui da tutti si soffre, ed è poi un’onta manifesta che si fa alle ecclesiastiche Costituzioni che, sotto i più severi anatemi, obbligano chiunque a denunziarne le fraudi ed i defraudatori. Per questo, Monsignore, gli umili abitanti sudditi si fanno coraggio di ricorrere alla S.V. Ill.ma e Rev.ma (…) al fine che il più volte ripetuto Oratorio resti nel suo primiero stato e quindi sia per sempre precluso l’adito alle incominciate pregiudizievoli innovazioni”. Seguono le seguenti firme: Giuseppe Rabotti, Gio. Battista Monzani, Carlo Rabotti, Andrea Franzani, Giacomo Ant.° Rabotti, Giovanni Rabotti, Antonio Monzani, P. Rubini.
Il 22 maggio il Vicario Generale della Diocesi, Canonico Filippo Valli, scrive al Sub-Economo Ducale di Castelnovo ne’ Monti, dott. Pietro Rubini (che è poi il P. Rubini, firmatario di cui sopra), riassumendogli le perplessità espresse dagli abitanti di Castelnovo sulla costruzione del nuovo edificio e cioè che la fabbrica è in opposizione alle leggi ecclesiastiche e civili; che un muro dell’oratorio diventerebbe comune alla casa dei Rabotti; che lo stillicidio viene tolto dalla nuova fabbrica e che quest’ultima va a chiudere una finestra del suddetto Oratorio. Poi lo informa che Mons. Vescovo, prima di assumere qualche decisione, gradirebbe conoscere da lui, che si trova qui sul posto, se rispondano al vero i rilievi avanzati dai ricorrenti ed, infine, quali siano le sue valutazioni in merito. Il Vicario, ad ogni buon conto, termina chiedendo al Sub-Economo di ordinare subito la sospensione dei lavori dell’edificio Rabotti qualora ne abbia i poteri, “diversamente - dice - ci rivolgeremo alla Reale Intendenza”.
Già il 26 maggio, il dott. Pietro Rubini risponde al Vicario confermando di fatto i rilievi mossi dai cittadini castelnovesi avverso la fabbrica dei Rabotti. Precisa che già ora i tre muri maestri longitudinali di quell’edificio si appoggiano all’Oratorio chiudendo una finestra “ove dicesi volersi formare una tribuna di comunicazione ed occupandone in pari tempo lo stillicidio ed un canaletto di un braccio circa di larghezza che gli serve di scolo”. Prosegue poi dicendosi non abilitato ad impedire quel lavoro iniziato, ma puntualizzando che esso “è ingiusto pei diritti che si ledono, improprio per gli usi che col tempo si possono fare della nuova fabbrica ed impolitico pel grande malcontento degli abitanti del paese i quali tutti, indistintamente, restano con animo cattivo per simili innovazioni in un luogo santo che guardano con particolare rispetto e devozione”.
A questo punto, e siamo al 31 maggio, il Vicario Generale scrive direttamente a “S.E. il Consigliere di Stato, Governatore della Città e Provincia di Reggio”, Conte Ippolito Malaguzzi, rappresentandogli la petizione dei Parrocchiani di Castelnovo ne’ Monti ed allegando il carteggio intercorso col locale Sub-Economo Ducale. Gli riferisce anche che il Vescovo conta “sulla di Lei saviezza per agire in concerto coll’E.V.”.
Lo stesso giorno, il Governatore di Reggio risponde al Vicario comunicandogli di avere ordinato al Podestà di Castelnovo ne’ Monti di fare sospendere i lavori della fabbrica dei Rabotti, “fintantochè siasi eseguita regolare visita del Perito Fiscale di Governo”. E lo prega di partecipare questa notizia al Vescovo. Quindi, interruzione dei lavori e chiusura del cantiere.
Intermezzo
E noi, allora, ne approfittiamo per qualche approfondimento ed anche per svelarvi alcune curiosità che fanno di questa vicenda, apparentemente normale, una interessante finestra di osservazione della nostra storia civile e religiosa, nonché della nostra società all’inizio del quarto decennio dell’‘800.
1) Abbiamo letto le parole dell’Arciprete Catti secondo il quale “l’Oratorio è di ragione comune degli abitanti di quel Castello”. L’Oratorio, cioè, era pubblico. Una verità, questa, abbondantemente documentata da secoli. Quell’Oratorio fu costruito dai Castelnovesi che sempre lo possedettero “de iure”, cioè in pieno diritto, provvedendo con mezzi propri alla sua manutenzione e conservazione, ai necessari restauri, ad approvvigionarlo delle suppellettili e di quanto fosse necessario per officiarvi le funzioni religiose. Ed erano gli stessi abitanti del Castello a detenerne le chiavi. Aveva un proprio bilancio ed un proprio capitolo nella Fabbriceria che gestiva la parrocchia. Ovviamente, in quanto luogo di culto, era soggetto alle leggi ecclesiastiche nonché all’autorità dell’Arciprete della Pieve come, d’altra parte, tutte le chiese, cappelle ed oratori di gran parte della montagna. L’Oratorio si trovava un tempo all’interno del Castello (da qui il nome), cioè del borgo antico oltre la volta, compreso fra le attuali vie V. Veneto e C. Franceschini ed ancora prima, probabilmente, sul monte, presso la rocca. Non è dato di conoscere il tempo in cui esso fu riedificato nel luogo attuale, ma tutti i documenti giunti sino a noi da subito dopo la metà del XVI sec. lo danno lì già allora.
2) E’ stato più volte citato il termine “stillicidio”. Con esso si intendeva il gocciolamento delle acque piovane sotto la gronda del tetto, lungo i muri perimetrali della chiesa. Fin dai primi secoli del cristianesimo, quando ancora non era consentita la sepoltura all’interno della chiesa (“in ecclesia”), si incominciò a seppellire vicino alla chiesa (“apud ecclesiam”) e, tra i luoghi ove si preferiva essere sepolti, uno era proprio “sub stillicidium”, cioè bagnati da quelle acque piovane che si riteneva avessero assorbito la sacralità dell’edificio per lo scorrere lungo le sue mura. Pertanto lo “stillicidio” era sempre stato considerato e protetto con sacrale rispetto anche dalle norme canoniche. Come annotazione storica, si può aggiungere che nel 1831, a Castelnovo, si seppelliva appunto “apud ecclesiam”, cioè nel cimitero che stava a ridosso della chiesa della Pieve, l’attuale Sagrato (“Sacratum”, cioè luogo reso sacro proprio dalla presenza dei defunti). E, questo, dal 1809, in seguito alle leggi napoleoniche. Ma, evidentemente, c’era nel castello chi si faceva inumare ai piedi del suo Oratorio, come dimostrarono le sepolture là rinvenute durante i recenti lavori di restauro dell’ex edificio Rabotti.
3) Non si può, infine, non rilevare come la disputa in atto stesse mettendo in campo, direttamente ed attivamente, quelle che erano all’epoca, e da circa centocinquant’anni, le tre più prestigiose famiglie del nostro paese: Rabotti, Monzani e Rubini. Famiglie non indigene, grandi e benestanti, che, attraverso numerosi matrimoni, si erano intrecciate fra di loro, tanto che tutti i protagonisti di questa vicenda erano legati da vincoli di parentela. Vediamo in che modo, il più brevemente possibile. Conviene partire da due antenati: Francesco e Gaetano Rabotti, nipoti di Giacomo Antonio, il primo Rabotti che da Crovara si era trasferito a Castelnovo nel XVIII sec. (Gaetano era famoso per avere costruito l’edificio che si affaccia tuttora, col suo muro tinteggiato di giallo, su Piazza delle Armi; agli inizi del XIX sec. era il più nuovo ed accogliente del paese tanto da essere scelto per ospitare per ben tre volte il Duca Francesco IV: nel 1816, nel 1818 col suocero Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, e nel 1823 col fratello Arciduca Massimiliano d’Austria). Ebbene, Giuseppe e Gioachino, costruttori del contestato edificio, erano figli di Francesco, mentre i firmatari della petizione avversa, cioè Giuseppe, Carlo, Giacomo Antonio e Giovanni, fratelli, erano figli di Gaetano e, quindi, cugini dei loro due “avversari”. Andrea Franzani, milanese di origine, era cognato dei due “costruttori” Rabotti, avendone sposato la sorella Cristina. Quanto ai Monzani, Antonio e Giovanni Battista, padre e figlio, erano, rispettivamente, figlio e nipote di Agata Rabotti, sorella dei suddetti Francesco e Gaetano, e moglie di Saverio Monzani. Pietro Rubini: il padre Mariano era cognato del solito Gaetano Rabotti (avevano sposato due sorelle). Pietro Rubini, dottore in legge, già Podestà dieci anni prima, era dunque Sub-Economo Ducale e, contemporaneamente, firmatario della petizione contro i fratelli Rabotti (“conflitto d’interessi” ante litteram?...). Lo stesso Pietro, poi, era fratello di Giacomo Antonio, nonno del notaio Tacito Rubini che molti, a Castelnovo, ancora ricordano. Infine, va detto che tutti i sunnominati signori, che in questa controversia troviamo schierati dall’una o dall’altra parte, erano attivamente legati alla parrocchia: alcuni erano stati fabbricieri e molti di loro, nel luglio 1823, avevano firmato due petizioni inviate dai parrocchiani a don Giuseppe Catti, allora Rettore di Sarzano, per sollecitarlo a rendersi disponibile ad assumere il rettorato della Pieve di Castelnovo, vacante dopo la morte del già citato don Marioni. Tutto questo spiega, al di là delle sue precarie condizioni di salute, la reticenza mostrata dall’Arciprete ad esporsi in modo palese per dirimere la controversia insorta nel 1831 fra quella gente.
La visita del Perito Fiscale
Il Perito Fiscale annunciato dal Governatore di Reggio nell’ultima sua lettera inviata al Vicario Generale della Diocesi, giunse a Castelnovo il 30 maggio. Era reggiano e si firmava F. Ficarelli.
Esaminò attentamente l’oggetto del contendere, parlò con gli interessati, si fece una sua idea ed inviò, il 6 giugno successivo, una articolata ed esauriente relazione al Governatore Malaguzzi.
In essa il Ficarelli scrisse che “oggi giorno i muri della Fabbrica, già attaccati in tre punti e per l’altezza di sei braccia circa al muro meridionale della Cappella, sono già portati al primo piano. Per il quale stato di cose e per le dichiarazioni avute dal Sig. Gioachino Rabotti intorno a ciò che resta da farsi, è forza convenire non essere destituito di fondamento il reclamo avanzato da diverse persone del luogo”. Poi spiegò i danni che la nuova costruzione avrebbe arrecato all’Oratorio: 1) la prima delle tre finestre sul lato meridionale della Chiesa “verrà chiusa o sarà deficiente di luce quando sia destinata all’uso di Tribuna”; 2) l’altra contigua finestra “perderà della sua primiera attività”; 3) “la porzione di muro della Chiesa che rimarrà all’interno della Casa diverrà soggetta a servitù tanto pel sostegno dei tasselli (solai, ndr) Rabotti, quanto per l’uso che ne vien fatto a pro della medesima”; 4) “quando si avesse a tenere più basso il tetto della Casa per ricevervi le acque di una porzione del coperto della Chiesa”, così come gli è stato riferito da Gioachino Rabotti, “si avrebbe sulla Chiesa stessa la congelazione delle nevi e delle acque che si raccoglierebbero in siffatta depressione. Il che non fu considerato dai Ricorrenti”.
Ma, soprattutto, il Perito Fiscale mise in chiara evidenza il vero, grande problema che caratterizzava tutta la vicenda e che per noi costituisce un ulteriore ed interessante esempio di una realtà sociale che, di lì a poco (dal 1850 in poi), sarebbe venuta a meno: la convivenza, difficile e spesso conflittuale, fra l’ordinamento giuridico secolare e quello ecclesiastico.
Il problema, in pratica, stava nel fatto che il nuovo edificio Rabotti era soggetto al diritto civile (“al vigente sovrano codice”) nella parte meridionale, cioè quella confinante col fabbricato comunale, ed al diritto canonico in quella settentrionale che andava ad appoggiarsi all’Oratorio: in regola a nord, dopo normale concessione governativa seguita ad istanza correttamente avanzata, i due fratelli Rabotti erano “fuori legge” a sud non avendo preventivamente interpellato l’autorità ecclesiastica, cioè il Vescovo.
Per loro fortuna, a questo punto il perito Ficarelli, con insospettata diplomazia, intraprende la strada della mediazione. Scrive infatti che ”benché la non conoscenza delle leggi civili non scusi il trasgressore, può essere invece scusabile il cittadino che non sia edotto nello ius canonicus (“diritto canonico”, ndr), giustificando dunque i Rabotti e ritenendoli in buona fede. Poi aggiunge che, nonostante la chiusura totale di una finestra e parziale di un’altra, poco danno risulterebbe alla Chiesa “atteso l’uffizio che ne prestano le altre cinque”. Inoltre, riferisce che i fratelli Rabotti sono disponibili a costruire un nuovo muro a ridosso dell’Oratorio anziché appoggiarsi direttamente ad esso e ciò contribuirebbe a difenderlo dall’umidità perché l’acqua che ne piove dal tetto “invece di sgolare nel canaletto passerebbe pel tetto Rabotti, indi in strada senza toccare la scarpa del medesimo”. In più, gli stessi Rabotti monterebbero grondaie atte a proteggere l’intera parte esterna dell’Oratorio, anche al di fuori di quella appoggiata al nuovo edificio. Quindi il Ficarelli non risparmia una bella tirata d’orecchi a due dei firmatari del ricorso, i fratelli Giovanni e Giacomo Antonio Rabotti, proprietari dei terreni sovrastanti l’Oratorio i quali, deviando un corso d’acqua proveniente da una fonte situata sul loro terreno, hanno causato la formazione di una fossa nelle vicinanze dell’Oratorio, che rilascia continuamente la sua acqua, parte della quale entra nel coro dell’Oratorio stesso mantenendovi perennemente il bagnato. Il Perito termina poi con un piccolo saggio di “premura istituzionale” dicendo che la costruzione è ormai avanzata a tal punto che “il provvedere a tutto rigore costituirebbe uno smacco per le Autorità secolari che si sono occupate sino ad ora della cosa ed alle quali è pur dovuto un qualche riguardo”. Ma, ammette, dipenderà dall’autorità del lodato Mons. Vescovo il decidere sulla controversia indotta massimamente tra famiglie legate di sangue”.
La difesa dei due fratelli Rabotti
Il 28 luglio seguente i fratelli Gioachino e Giuseppe Rabotti inviano al vescovo Cattani una rispettosissima supplica in cui ammettono di non avergli resa informazione della costruzione intrapresa, ma ciò “non avvenne per mancanza di quell’ossequioso rispetto che si fanno pregio di protestarLe, ma perché non cadde loro in pensiero che fosse da ricevere l’approvazione dell’Ecclesiastica Podestà in cosa che dalla civile autorità era stata trovata di vantaggio e decoro dell’Oratorio medesimo”. Assicurano poi che non mancheranno di realizzare tutte le modifiche consigliate dal Perito Fiscale nella sua nota. Soprattutto, però, supplicano il Vescovo “di voler ritenere calunnioso il ricorso fatto, mosso soltanto dalla malevolenza a dall’arido animo di pochi individui, tutti parenti della famiglia Rabotti, i quali non cessano da anni di creare inquietudine e litigi”… I due Rabotti, ancora, si dicono certi che Mons. Vescovo si degnerà di “riflettere che di tanta popolazione quale si è quella del nostro Paese, cinque o sei individui soltanto hanno potuto indursi a muover loro siffatta accusa, e tutti legati con essi di strettissima parentela”.
La decisione del Vescovo
E’ iscritta direttamente in calce alla suddetta supplica dei due Rabotti.
“Decreto
Si permette il proseguimento dell’intrapresa Fabbrica purchè sui Ricorrenti si emetta formale obbligazione per la piena osservanza dei seguenti Patti:
1° Non potranno i Fratelli Rabotti e i loro discendenti destinare la nuova Fabbrica ad uso di osteria, di stalla o di qualsiasi mercimonio indecente che possa dar luogo a scandali, litigi o perturbare gli esercizi di Religione.
2° Per impedire il detrimento che dalla congelazione delle nevi e delle acque ne verrebbe al muro dell’Oratorio su cui deve poggiare il tasselletto, i Rabotti dovranno costruire un muro attiguo che difenda quello dell’Oratorio ed in ogni evento dovranno antistare (provvedere, ndr) a qualunque danno ne potesse in seguito derivare.
3° Dovranno apporre la grondaia in tutta la parte del tetto dell’Oratorio rivolta verso la nuova Fabbrica ricevendone le acque sul proprio terreno.
4° La somma da essi offerta per l’indennità dell’Oratorio non potrà essere minore di 100 franchi, in ordine alla quale si riserva il Prelato di spiegare la sua mente a tempo opportuno.
Reggio 28 luglio 1831, Can. Filippo Valli, Vicario Gen.le (registrato nel Libro delle Grazie dell’anno 1831, alla pag. 208, N.1033)”.
Gli ultimi adempimenti
La determinazione assunta dal Vescovo viene immediatamente comunicata al Governatore che, tramite le preposte Autorità statali, centrali e locali, dispone la riapertura del cantiere. Prima però, il 29 luglio, Gioachino Rabotti è convocato a Reggio, nel Palazzo vescovile, dove firma, anche a nome e per conto del fratello Giuseppe, l’obbligazione con la quale i due si impegnano alla piena osservanza dei quattro Patti contenuti nell’ordinanza del Vescovo. Inoltre, su richiesta del dott. Pietro Rubini, la somma da pagarsi dai Rabotti viene elevata da 100 a 150 franchi, i quali dovranno essere investiti a capitale fruttifero a pro della Fabbriceria parrocchiale.
C’è un’altra proposta avanzata dal Rubini all’Intendente Generale di Modena: trasformare l’obbligazione in autentico atto notarile di valore perpetuo, da impugnarsi dagli abitanti di Castelnovo in ogni epoca futura e nei confronti di chiunque. Ma, sull’esito, non abbiamo trovato riscontri documentali.
Accadde dopo
La nuova casa potè dunque essere ultimata, ma occorse attendere il mese di luglio del 1854 perché essa facesse nuovamente parlare di sé. Nel frattempo però, la cronaca di Castelnovo e dintorni si riempì di tanti ed importanti avvenimenti. Alla Pieve, a don Giuseppe Catti, morto il 16 dicembre 1831, succedettero don Gio. Battista Caselli di Minozzo, don Domenico Canali di Giandeto e, dall’inizio del 1854, don Francesco Riccò, montecchiese, che avrebbe retto la parrocchia fino al 3 agosto 1885, data della sua morte. Al Vescovo Filippo Cattani, modenese, succedette nel 1849 il garfagnino Mons. Pietro Raffaelli, da Fosciandora, mentre a Modena, il 21 gennaio 1846, alla morte di Francesco IV, divenne Duca il Figlio Francesco V d’Asburgo-Este, ultimo sovrano estense prima dell’unificazione nazionale (egli abbandonò Modena l’11 giugno 1859 ponendo fine al dominio estense sulle nostre terre che durava dal 9 maggio 1413).
Quanto ai personaggi del nostro racconto, Gioachino Rabotti, che ebbe sei figli, morì nel 1848 all’età di sessantacinque anni, mentre il fratello Giuseppe, celibe, morì nel 1849 a settantasette anni.
L’appartamento confinante con l’Oratorio e del quale aveva occupato la famosa finestra riconvertita a tribuna, toccò al figlio maggiore di Gioacchino, Giovanni Battista, che nel 1835 aveva sposato, indovinate un po’ chi?: Agata Monzani, figlia di Antonio e sorella di Giovanni Battista, due fra i principali oppositori dell’edificio voluto dal suocero Gioachino. Ebbene, questo appartamento fu affittato al Consiglio di Stato per la Giustizia (il Ministero della Giustizia estense, ndr) che prese ad alloggiarvi il locale Giusdicente, cioè colui che amministrava la Giustizia a Castelnovo ed in tutto il territorio montano. Il 9 luglio 1854, con una lettera inviata al nuovo Arciprete don Francesco Riccò, il Segretario Vescovile don Luigi Catellani comunicava che S. Ecc. Rev.ma Mons. Vescovo, tenuto conto dello stato di salute della moglie del Sig. Giusdicente Dott. Tognoni, permetteva che la medesima e lo stesso Sig. Giusdicente potessero ascoltare la Messa nei giorni festivi “dalla Tribuna che dalla casa guarda nel pubblico Oratorio del Castello, esclusa però quella servitù di loro famiglia non necessaria all’atto, la quale dovrà andare all’Oratorio o alla Chiesa Parrocchiale. Dichiara però la lodata Ecc. Sua Rev.ma che tale permesso è accordato soltanto all’attuale Sig. Giusdicente ed alla di lui Sig.ra Consorte e non a chi loro succederà, sia Giusdicente o Padrone della casa od altra famiglia qualunque e non altrimenti ecc.”. Un’analoga richiesta, però, veniva avanzata due anni dopo, il 22 maggio 1856, dal nuovo Giusdicente Sig. Dott. Achille Bassi, ricorrendo alcune circostanze che egli esponeva. Il Segretario Catellani, allora, siccome il Vescovo non aveva ritrovato in Curia i documenti relativi alla precedente richiesta, chiese all’Arciprete di inviargli al più presto copia di quel carteggio. Ed alcuni giorni dopo arrivò all’Arciprete, su lettera autografa datata 5 giugno 1856, la secca e severa risposta del Vescovo Raffaelli che, rifacendosi alle citate carte ma anche al decreto emanato dal Vescovo Cattani il 28 luglio 1831, così si esprimeva:
1) “Che venga immediatamente chiusa, non a coltello od a parete ma in muro di testa, la vecchia finestra. 2) Ordiniamo al Sig. Arciprete-Vicario Foraneo di Castelnovo ne’ Monti di fare eseguire al ricevere del presente decreto la chiusura della finestra nel modo sopra indicato. (…) Il ricordato Arciprete ci informerà del di lui operato”.
Una presenza muta
Oggi l’Oratorio di S. Maria Maddalena, detto anche “del Castello”, è ancora lì, vicino alla casa di Gioachino Rabotti ed all’antico Palazzo del Bargello. Ma da tempo non parla più. Non condivide più con loro i racconti delle tante vicende umane, civili e religiose, vissute in ogni tempo assieme agli abitanti di questo paese che lo costruirono, lo difesero e lo amarono sempre, per un millennio di storia, ovunque egli si trovasse. Nessuno si inginocchia più sui suoi banchi a pregare il Signore né si consola volgendo lo sguardo all’immagine dolente della Maddalena in quell’antico dipinto oltraggiato dal tempo e dall’indifferenza degli uomini. Un portone sbarrato, solitudine, squallore, silenzio, abbandono.
La malinconia di quel minuto, umile campanile, pallido e consunto come un braccio di persona morta che si protende ad implorare la pietà del vento.
I soldi. Che la parrocchia non ha.
La Chiesa della Pieve, la canonica, la scuola materna. La Chiesa della Resurrezione che cede; le strutture per l’educazione giovanile. L’Eremo della Pietra. Gli edifici religiosi del vettese.
Si risveglieranno “li homini di Castelnovo ne’ Monti”? E’ nelle loro mani la salvezza dell’Oratorio del Castello. Come fu in quelle dei loro padri che in mille anni mai gli volsero le spalle. Uniti. Con la forza e le possibilità di ognuno, con la Fede di tanti e l’amore di tutti.
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Fonti consultate:
Archivio Storico Parrocchiale di Castelnovo ne’ Monti
Archivio Diocesano di Reggio Emilia
Archivio Storico del Comune di Castelnovo ne’ Monti
Archivio Don Francesco Ricossa - Verrua Savoia (TO)
Archivio fam. G. Giovanelli - Felina
L. Bertolaccini: “I servizi funerari”, n. 4, ott.-dic. 2000
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- L’archivio racconta 10 / La storia del cimitero di Castelnovo ne’ Monti (2 novembre 2013);
- L’archivio racconta 11 / Quella volta che Monte Castello franò su Castelnovo (7 dicembre 2013)