Il cielo su Atticola era gonfio di nuvole grevi che non promettevano nulla di buono. Era piovuto tanto in quel tardo autunno del sessanta che già annunciava l’inverno. L’umidità dai muri delle case penetrava fin dentro l’anima, un sottile odore di muffa che si incuneava nei polmoni ad ogni respiro.
La pioggia, lenta e velata, aveva avvolto in un grigio abbraccio i pioppi spogli sulla riva del Lonza e trasformato il paesaggio circostante. Il rumore assordante della piena aveva riempito di inquieti presagi le stanze del borgo, dove la vita e la morte stavano facendo il loro corso.
“A’ sta mal la Dorotea!”. La notizia si era già sparsa, fra la concitazione e il dolore. Dorotea, l’anziana madre di Armando, si stava pian piano spegnendo come il lume della candela che illuminava la sua camera buia.
Dorotea vestita di nero, che nella bella stagione stava seduta sulle scale che davano sull’uscio di casa scacciando le mosche che le si posavano addosso, più fitte dei suoi tanti ricordi. Dorotea che non si lamentava mai, che aveva una carezza per tutti i bimbi che le passavano vicino, col rosario sempre stretto tra le mani. Il viso rugoso e scavato, come roccia sgretolata dalle intemperie, mostrava la serenità di chi stava giungendo alla meta avendo dovuto combattere le infinite battaglie della sopravvivenza.
Era rimasta in prima linea fin che ne aveva avuto la forza, fra i tanti figli e nipoti da allevare, col duro lavoro dei campi e della casa, lei così alta e magra, col fazzoletto legato di dietro e le maniche sempre rimboccate. Alla morte del marito aveva seguito uno dei figli, che avrebbe continuato il loro destino di mezzadri, come avveniva da molte generazioni.
I giorni erano scorsi via come i grani della corona del rosario che faceva scorrere fra le dita al calar della sera, nella calura estiva o nel freddo di inverni interminabili.
Si era quindi ritirata con dignità ai margini del nucleo familiare, “per mia disturbar”, per non disturbare, diceva. Per questo era rispettata anche da tutti i vicini, guardata con riverenza. Si nutriva di semplici cose, nella scodella di coccio riempita di latte o di vino, tuffava pezzetti di pane.
Quel giorno con la sua lunga tunica nera dall’interminabile fila di bottoni, avvolto nel tabarro, don Alberio Santi era sceso dal gippone chevrolet di mio padre sulla strada fangosa. Solo il cupo rumore del fiume che avevano appena attraversato lo accompagnava, mentre saliva le scale verso l’abitazione col breviario fra le mani.
All’interno fu accolto da mute parole e subito condotto da lei. Dorotea giaceva immobile su un letto di lamiera stampata color finto legno, addossato al muro di quella povera camera improvvisata. L’assito scricchiolava e si muoveva sotto il peso dei passi. Don Santi si era seduto al suo fianco senza parlare. Erano rimasti soli. La tenue luce che proveniva dal portacandele appoggiato sul tavolo illuminava le loro figure e ne rifletteva le ombre sulla spoglia parete.
Guardava il cielo Dorotea e bisbigliava flebili parole che si scioglievano nell’aria, mentre lui annuiva e la cospargeva di unguento benedetto.
La morte sarebbe arrivata col suo cavallo nero, fasciata nel tetro mantello con la falce sulle spalle, alla fine di ogni cosa. Quella morte che un giorno avrebbe preso ad uno ad uno tutti noi, per trascinarci giù nel profondo degli abissi, noi miseri peccatori che avremmo cercato, nel conforto di una tardiva preghiera, la salvezza nel regno dei cieli.
“Kyrie eleison!”, Cristo pietà, avremmo ripetuto mille volte prima che il buio sommergesse anche l’ultimo raggio di luce, prima che i nostri pensieri si gelassero in un silenzio di ghiaccio.
Dorotea com’era vissuta se ne stava andando con dignità, senza nessuna paura, nella speranza della resurrezione. Che cos’era in fondo la morte per lei, se non il passaggio ad una vita migliore, dove tanti la stavano aspettando? E non avrebbe concepito le donne vestite a lutto, la litania di un rosario biascicato dai più senza passione, antiche parole in latino che si sarebbero perdute nell’oscurità della notte.
Un lungo respiro, solo un lungo respiro, prima della quiete, un soffio leggero come vento d’autunno che stacca le foglie, come volo d’uccelli sull’orizzonte, verso là dove tutto diventa impalpabile. Così era cominciata la sua grande avventura nell’eternità, dal buio profondo alla luce accecante.
Nel pomeriggio del funerale, così pieno di gente, un mazzo di crisantemi bianchi era stato deposto ai piedi della portantina che stava sul cortile. La cassa d’abete chiaro vi sarebbe stata posata sopra e poi ricoperta dal telo nero orlato di viola.
Davanti alla croce, la piccola folla si stava preparando per accompagnarla nel suo ultimo viaggio, una macchia scura che sulla passerella di legno avrebbe attraversato il torrente, nel lungo cammino verso Vetto. Quello stesso tragitto che ognuno di noi, qui o altrove, avrebbe dovuto poi ripetere per se stesso, al girare della ruota del tempo.
In passato non sempre era stato possibile passare la piena con la portantina sulle spalle, prima della costruzione del ponticello. Come quella volta che il funerale, partito da una borgata vicina sotto il diluvio, si era dovuto fermare ad Atticola, fra la costernazione dei presenti. L’acqua faceva veramente impressione, alti cavalloni che trasportavano radici e tronchi di alberi, un flusso liquido color mattone che cozzava contro gli argini del torrente.
Sul grande carro trainato dai buoi era stata legata strettamente la bara con la ghirlanda. Un’altra sfida alla furia della natura, passare là dove sembrava impossibile, vincendo antiche paure. “Sta ferme Livio, l’è trop pericolus!” Ma mio nonno già si muoveva lentamente sui trampoli nel fragore angoscioso della corrente, davanti al feretro che procedeva a fatica.
L’acqua limacciosa cercava di sollevare il carro e di farlo scorrere via, lo sommergeva e strappava i fiori della corona che fluitavano veloci sparendo lontano fra i gorghi. I buoi emergevano per la testa, nello spasmo della fatica, fra flutti che ogni tanto li spostavano e sembravano travolgerli. Solo la forza possente degli animali ebbe alfine ragione di tutto, mentre gli uomini del fiume avrebbero portato la gente sull’altra sponda a cavalcioni sui trampoli.
Il funerale di Dorotea, nel frattempo, attraverso le Terre Rosse, era arrivato ai piedi della salita della Mornella, dove altre persone stavano in attesa. Si erano fatti il segno della croce, mentre i portatori ricevevano il cambio.
L’ascesa con la portantina sulle spalle era impegnativa, affannava il respiro, spezzava l’onda delle interminabili preghiere, degli “ora pro nobis” e dei “requiem aeterna”, prima dell’arrivo sulla piana del Brei. Non l’arrivo alla terra promessa, ma al luogo del grande riposo, quando tutto ormai si sarebbe compiuto, dopo l’ultimo abbraccio gonfio d’incenso, nella chiesa di Vetto.
Solo una croce di legno aveva ricoperto la sua tomba, solo una “D” l’aveva resa individuabile. Io l’avrei però riconosciuta fra tutte le altre, quando nei giorni dei morti mi sarei recato a deporre su di lei, sulla nuda terra, un piccolo fiore.
Gli occhi del bambino hanno avuto il potere di fissare queste immagini lontane, queste sensazioni filtrate dall’anima, come infusi che ti penetrano nelle viscere e che mai più ti abbandonano. Le prime sembianze della morte, del compimento di un’esistenza, quando tutto ritorna al silenzio, nel crepuscolo della sera.
Nella mia stanza, ripenso ora al mio cammino di viaggiatore, alle tante persone amate già portate via dal tempo che spero di potere un giorno rivedere. Forse l’eternità è fatta anche per questo, per poter loro pronunciare parole pensate e mai dette, per poter donare un sorriso e un abbraccio a tutti quelli che ci pensano sempre.
Complimenti
Bravo! Racconto bellissimo e commovente. Grazie…
(Commento firmato)
Sensibilità, cioè autorevolezza
A Renzino un grazie lungo 70 km., la distanza fisica che ci separa, ma che grazie alla sua poesia è colmata. Grazie di cuore a un amico sincero che nel nostro tempo veloce e brutale si dà il tempo calmo per scavare nella miniera dei ricordi, per ritrovare e donarci la verità di noi stessi. Per meditare e consegnare ai giovani ciò che eravamo e che sentiamo come parte ancora viva dentro di noi; in attesa di arrivare finalmente, di memoriale in memoriale, a quella Comunione in cui tutto verrà recuperato, ricongiunto, capito, valorizzato, compiuto.
Aggiungo a commento del racconto di Renzino due meravigliose poesie, prese dal cineforum della Parrocchia di Campagnola sabato scorso e usate per commentare il film “Wit: la forza della mente”, drammatica e intensa interpretazione di Emma Thompson nella parte di un’ammalata terminale di cancro.
* * *
DANZA LENTA
@CHai mai guardato i bambini in un girotondo?
O ascoltato il rumore della pioggia
quando cade a terra?
O seguito mai lo svolazzare
irregolare di una farfalla?
O osservato il sole allo
svanire della notte?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce.
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Percorri ogni giorno in volo?
Quando dici “Come stai?”
ascolti la risposta?
Quando la giornata è finita
ti stendi sul tuo letto
con centinaia di questioni successive
che ti passano per la testa?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Hai mai detto a tuo figlio,
“lo faremo domani?”
senza notare nella fretta,
il suo dispiacere?
Mai perso il contatto,
con una buona amicizia
che poi finita perché
tu non avevi mai avuto tempo
di chiamare e dire “Ciao”?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Quando corri cosi veloce
per giungere da qualche parte
ti perdi la metà del piacere di andarci.
Quando ti preoccupi e corri tutto
il giorno, come un regalo mai aperto . . .
gettato via.
La vita non è una corsa.
Prendila piano.
Ascolta la musica.#C
(attribuita ad un’adolescente malata di cancro)
* * *
MORTE, TU MORRAI (John Donne, 1572-1631)
@CMorte non esser fiera, pur se taluni t’abbiano chiamato terribile e possente, perché tu non lo sei.
Poiché tutti coloro che credi di poter sopraffare non muoiono, meschina morte, né tu puoi uccidere me.
Tu schiava del fato, del caso, di re e di uomini disperati. Tu che ti nutri di guerre, veleni e malattie.
Oppio e incantesimi ci fanno addormentare ugualmente e meglio di ogni tuo fendente.
Perché dunque ti insuperbisci? Trascorso un breve sonno, veglieremo in eterno.
E Morte più non sarà; Morte, tu morrai.#C
(Don Carlo Castellini)