Correva l’anno… Forse non importa. Poteva essere l’anno del Signore 1799 o forse anche 1313, perché i secoli passavano sulle terre d’Appennino senza portare grandi innovazioni. Passavano, ignorati, ben al di sopra della miseria delle genti. O forse importa, perché in montagna, durante quei mesi, una grave epidemia s’insinuò tra le case, non distinguendo tra nobili e pezzenti, tra contado e signorotti.
Era il 1631. Come ancora racconta, a chi sale da ponente, quel sasso incastonato nella casa più lontana, a pochi passi dall’oratorio. E’ infisso a due metri da terra, quasi a voler rifuggire il contatto umano ed esser più vicino a ringraziare Dio.
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Bartolo e Tonino, i due monatti che al morbo erano scampati, sarebbero saliti alle prime luci dell’alba. Non c’era spazio per le lacrime. Alice, ormai consunta in una provata e semplice bellezza, estrasse un velo di seta di Reggio da uno scomparto della panara, l’unico mobile di casa.
“Ti accompagni per sempre a nuova vita”, sussurrò posandolo sul volto della madre e intrecciandole il rosario tra le dita. Di lacrime, in quel giorno, non ne aveva più. Il padre se l’era preso la falce che tutto appiana solo due mesi avanti. La sorellina, Bernardina, continuava a dormire. A lei, ora, il compito del bestiame e della terra.
“Abbiate riguardo del velo” disse allungando un soldo di Lucca ai due saliti da Vectus con una coppia di magre vacche al traino di un bros. Seguiti dallo sguardo della figlia maggiore, si incamminarono così alla fossa del Malcontagio, a valle del capoluogo. Sul carro, il corpo dell’ultima vittima del male oscuro ondeggiava ritmicamente all’incespicare delle ruote nelle sporgenze della carraia.
Una folata di vento sollevò il velo dal volto dell’anziana donna senz’anima - i monatti non se ne curarono - e quasi impercettibilmente lo spinse di nuovo in direzione della casa da cui proveniva.
Sebastiano, il figlio del conte, la raggiunse la sera stessa. “Non ti lascerò sola Alice”.
“Vorrei che il tempo si fosse fermato a due Natali fa” rispose lei, lo sguardo spento sotto i capelli scarmigliati che non riuscivano a celare lineamenti così dolci. Bernardina si era infilata sotto le coperte dopo una povera zuppa. Sebastiano, prima di andarsene da quella furtiva visita, allungò ad Alice una micca di pane bianco, alcuni fagioli e, soprattutto, un pezzo di carne affumicata.
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Era il giorno della Vigilia quando Sebastiano stava per entrare in oratorio. Seduta, dalla parte delle donne, ma visibile dal suo posto, stava la sua amata. Una ragazza ormai donna, amorevole come, ne era sicuro, altre non potevano esistere. Il suo essere contadina lo svelavano lo scialle di lana grezza sulle spalle, l’accenno delle prime rughe al lato degli occhi, il pallore della stanchezza per il troppo lavoro. Eppure il suo viso era radioso come il riverbero del sole mattutino nella fonte del borgo, quella più in alto. Le mani lunghe e sottili, congiunte sul rosario, non rivelavano la fatica dei panni lavati con la cenere e sciacquati al torrente, né le screpolature del freddo o i calli della zappa. Anche il portamento eretto aveva un qualcosa di nobile. Pregava, raccolta eppure inquieta. Come se si sentisse scrutata. Si girò appena, sollevò il velo e si avvide di lui. I loro sguardi s’incrociarono, ma delicatamente, come due farfalle a primavera. Lei abbassò il suo. Quando lo rialzò, quello di Sebastiano le apparve insolitamente fiero. Lei sapeva delle difficoltà di Sebastiano. Al paese circolava voce delle differenze tra il figlio del conte e il padre, il vecchio Pietro. Pietro, il conte, voleva restaurare le antiche vestigia del castello sopra il borgo, Sebastiano prediligeva lo studio delle erbe a cui lo aveva introdotto lo zio parroco e il girovagare nei boschi per studiare il comportamento degli animali selvatici che, con dispiacere, vedeva ammazzare nelle sempre più rare battute di caccia. Col padre erano frequenti i dissapori.
“Domani sarò da voi” le sussurrò Sebastiano uscendo. La piccola Bernardina parve cogliere un che di rassicurante nella mano della sorella posata sulla sua spalla.
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La peste aveva annunciato l’arrivo della carestia. Cinghiali e volpi da qualche tempo parevano avere presagito la minore disponibilità del contado e avevano smesso di sostare nei recinti sotto il paese. Più sopra, le case arroccate le une alle altre lo rendevano ugualmente fortificato. La sera, gli uomini chiudevano i due portoni, a levante e ponente e, difficilmente, qualcuno avrebbe potuto scavalcarli senza svegliare i cani. Se non fosse che questi, per lo più, erano morti con i loro padroni. E la sera poteva succedere che rimanesse aperto quello più a valle verso il bosco o che fossero le donne a doversi occupare di chiuderlo. La notte della vigilia, però, anche il portone a occidente era sbarrato. Tuttavia Sebastiano aveva la forza dei vent’anni e lo scavalcò, nell’indifferenza dei pochi animali da cortile, storditi dal rumore della fame.
Salì lungo il muro, in silenzio, illuminato solo dalla schiva luce della prima luna crescente. Attraversò la strettoia dell’oratorio. Con la mente andò al viso di lei. Che era sulla soglia, al freddo, in attesa.
“Venite”.
Entrarono insieme.
La casa era insolitamente silenziosa, lo sguardo di Alice mesto. “Non siate triste: ora i vostri genitori sono nella gioia di nostro Signore” furono le prime parole che il figlio del conte azzardò. Ancora una volta si sentiva avvolto dal piacere della presenza dell’amata, ma era sgomento per il suo grande dolore. Una timida candela rischiarò il viso di entrambi e fece brillare le lacrime di Alice.
“Che avete, Sebastiano, sotto lo zigomo?” disse lei. Lui si scostò dalla luce.
“Vostro padre, vero? Lo sapete che il nostro è un incontro che mai sarebbe dovuto avvenire”. E due nastri d’argento più intenso ripresero a segnare le gote della giovane. Fu allora che Sebastiano le cinse le mani. Era quel gesto il maggior contatto fisico che il loro onesto amore aveva concesso a entrambi.
Bernardina, nel lettino poco distante, ebbe un sussulto.
“Aprite”. Alle parole seguì il battere dell’uscio contro il muro.
“Padre…”
“Sciagurato, te la fai con le villane e in paese mettendo a repentaglio la nostra sicurezza. Proprio la sera della Vigilia”. Il vecchio Pietro aveva gli occhi come indemoniati e si avventò sul figlio. Lo spinse contro il muro. Alice restò impietrita dallo stupore e dalla paura. Bernardina si rinfilò, velocemente, sotto le coperte. Il gelo della notte aveva invaso la stanza.
Nel battere di un ciglio, le mani dell’anziano genitore furono al collo del giovane. Il mondo parve precipitare ancora una volta in quella casa già senza Natale.
“Perché lo fate?”
Le mani di Pietro, troppo avvezze alla caccia, strinsero ancora più forte il collo di Sebastiano che non osava ribellarsi sino a che il suo viso si fece paonazzo.
“Perché lo fate?” Pietro era sordo nella sua rabbia. Uno zufolo di vento lasciò entrare qualcosa a mezz’aria nella penombra di quella scena priva di tempo.
“Perché lo fate?”. Un velo di seta si posò sul viso rugoso del conte.
Staccò per un attimo le mani dal collo del figlio. Scansò il velo e, inavvertitamente, si avvide di quei grandi occhi neri che lo interrogavano da sotto una vecchia coperta in un letto di foglie.
Bernardina voleva una risposta alla sua domanda. Alice era terrorizzata nell’angolo della stanza. Sebastiano tossì ripetutamente.
“E tu chi sei?”
“Bernardina. E voi?”
Pietro fu quasi infastidito dall’insolenza della piccola. Ma, per un attimo, si capacitò di quello che stava compiendo. “Sono Pietro, il tuo conte”.
“E perché, conte, vuole uccidere Sebastiano?”
Le domande di Bernardina erano intollerabili. Ma gli armonici della sua voce avevano qualcosa di antico, quasi chiave alla ricerca di uno scrigno nascosto.
In lontananza la campana di Vectus parve intonare l’inizio della messa di Mezzanotte.
“…fuori di qui” ordinò Pietro. E il figlio lo precedette nell’uscire.
* * *
La notte del conte non fu serena. Sognò di quando si era incontrato per la prima volta con sua moglie e di quando l’aveva persa, morta di parto. Sognò sé stesso piccino e di quando sperava di arruolarsi nei cavalieri del duca, ma il padre aveva deciso altrimenti. Sognò ancora quell’insolente voce. “Perché lo fate?”. E la sognò ancora e ancora una volta.
L’indomani era Natale. Alle prime luci dell’alba il conte era già sveglio. Strane visioni ne avevano minato il riposo. “La rabbia per il figlio degenere”, bofonchiò vestendosi. Cercò conforto nella messa celebrata dal parroco nella chiesa privata. Ma il conforto non arrivò.
Non poteva nemmeno dare la caccia al cinghiale nel giorno di Natale e allora oziò nel piccolo castello sino a mezzodì. Il pranzo si rivelò assai deludente e Sebastiano non proferì parola. Alle due provò ad appisolarsi, senza tuttavia riuscirci. Alle quattro, le luci del giorno lasciavano già spazio all’incedere delle tenebre.
Si decise. Scese giù a Sole. Ormai, nessuno badava a lui. In altri momenti lo avrebbero salutato con deferenza. Si badava, piuttosto, a schivare la paura, l’oblio e la morte. Voleva tornare in quella casa, ma non sapeva come fare e, soprattutto, perché intendesse farlo.
Inspirò, a lungo, quell’odore misto di persone e animali, di miseria e di vita cercata.
Si infilò sotto l’arcata che scendeva alla casa di Alice e Bernardina. Si fermò nel buio della volta. Qualcuno stava poco più in là di lui. Era qualcuno molto piccolo, forse un bambino infagottato come meglio poteva, accanto a una maestà in marmo bianco con un cero in mano.
“Che cosa fate a quest’ora?” chiese lui.
Il fagotto di stracci si girò verso Pietro. Avrebbe riconosciuto quegli occhi tra mille. Bernardina. La piccola non era spaventata.
“Scaldo la Madonna e Gesù Bambino” disse la piccola “così avranno meno freddo e potranno trascorrere tutta la nottata con il mio papà e la mia mamma che sono con loro in Cielo”
“Chi te l’ha detto?” la interrogò burbero lui.
“Alice, Alice me lo dice tutte le sere prima di andare a dormire”.
La voce di Bernardina suonò come lo scoccare di una chiave in un lucchetto. Pietro le allungò qualcosa e, furtivo, risalì al castello.
Salendo fu colto dai brividi. Temette il peggio. I suoi passi si fecero pesanti e ogni falcata divenne più breve. Sudò e sudò freddo. Sentì qualcosa premergli sul petto. Si fermò ansimante, si spogliò e vide ciò che mai avrebbe voluto vedere. Provò a riprendere il percorso, ma era come se un demone ne ostacolasse l’incedere, via via più tremante e incerto. Invocò il padre, la madre e l’aiuto della moglie. Stremato, giunse alla porta del castello. La cena si era già svolta. Nessuno lo aveva cercato. Salì nella sua stanza e senza nemmeno spogliarsi sprofondò nel letto di paglia, lottando con i sudori della peste.
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“Come mai siete qui?” chiese Alice al termine della messa di Santo Stefano.
“Mio padre ha la peste” rispose sommesso Sebastiano.
Alice si scostò triste di lato, ma lui interpretò il suo pensiero: “Non è colpa né vostra né mia: il male ha già colpito la nostra servitù. Prima o poi sarebbe successo”.
“Ho una cosa da mostrarvi”. Alice afferrò la mano di Sebastiano, compiendo lei per prima questo gesto in maniera naturale. Lo condusse in casa, accanto alla panara, ne sollevò il coperchio mostrando quanto restava.
“E’ una micca del nostro pane…” disse Sebastiano mentre cristalli d’argento ne offuscarono lo sguardo.
“L’ha consegnata ieri pomeriggio a Bernardina”. Fu allora che Sebastiano capì lo sguardo assente e privo di collera del padre nel pranzo il giorno precedente.
Senza dire niente uscirono. Nell’aia accanto recuperarono Bernardina e, complice l’assenza di neve e il passo dei giovani, in poco tempo furono a castello. L’anziana serva, rimasta, li condusse alla soglia della camera di Pietro. Sebastiano fermò qui le due donne.
Anche a distanza, il suo respiro era affannoso. Si fece più cheto quando sentì la voce della piccola Bernardina: “Signor conte, grazie per il pane”.
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Il resto di questa piccola storia racconta di un amore felice ed è comune ad altre mille. Se ora, però, salite a Sole di Vettus, sotto l’oratorio dedicato a San Rocco, troverete con facilità un arenaria giallo azzurra che silenziosa racconta, ancora, di quell’amore, incurante all’incedere del tempo. Su quel sasso una mano giovane scrisse: “1632, Ex solis populi voto peste hic grassante”.
Un amico dalle molteplici sfaccettature
All’amico Gabriele i più sinceri complimenti per il racconto e per le emozioni che suscita dipanando la storia dei due giovani e tribolati innamorati.
Una volta di più Gabriele mostra il suo animo sensibile ed attento alle “piccole cose”, quei palpiti inafferrabili che rendono la vita degna di essere vissuta.
Grazie.
(Cristina)
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@CNOTA DELL’AUTORE: Ancora una volta l’Amicizia dimostra la grandezza dei suoi sterminati confini. Grazie (gab)#C
Splendido racconto, grazie all’autore che con delicatezza racconta di pensieri, sentimenti, sensazioni che, anche se ambientati nel passato, sono sempre attuali e ci riempie il cuore di dolcezza. Grazie.
(Elisabetta Marmiroli)
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@CNOTA DELL’AUTORE: come sopra. Grazie di un’Amicizia che non conosce confini.#C
Molto delicato. Bravo.
(Commento firmato)
A Gabriele
Un racconto dai toni delicati, dove si dà voce al lato “femminile” di sé. Ed è giusto il tono per l’epoca in cui è collocato.
(Graziella Salterini)