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Alle tre del pomeriggio

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Peder aveva tirato su case e stalle per una vita.
“Hai sbagliato decennio", le diceva con parole colme d’affetto Rina, la moglie che l’aveva accudito per gli anni che gli erano stati a lungo concessi.

“Avessi fatto il muratore sin da bambino, avremmo costruito tante di quelle case che oggi camperesti di rendita”. Il boom demografico degli anni Trenta era scivolato attorno alla loro giovinezza regalando loro solo la curiosità per un Appennino popolato quanto mai più si sarebbe rivisto.
A Oriseto il sole, nonostante tutto, si rincorreva con la luna a segnare le stagioni dell’uomo. Quella di Peder e Rina fu una bella storia di una famiglia di montagna. “Siamo sopravvissuti alla furia dei tedeschi – diceva Maria – ma l’antibiotico degli americani non è arrivato in tempo per salvare Mariolino”. ‘”Lino” era il più grandicello dei quattro figli; se lo portò via la polmonite. Agnese, la figlia maggiore, prese la strada di Milano, andando per serva a soli 15 anni; a 17 era già maritata col figlio del padrone e nemmeno si ricordava del treno sbuffante sul quale avrebbe voluto risalire dopo soli due giorni nella capitale del Nord. Lucia, la sorella più piccola, a lungo provò a tener bottega in paese, finché s’innamorò di Ottavio, giunto dalla città su una fiammante “600” color del cielo e due occhi da rubacuori e, forse, prima ancora l’aveva attratta quel suo lavoro sicuro nella fabbrica di trattori in città.

Elia, il maschio rimasto, aveva già 18 anni quando prese la via del seminario, giusto poco prima che chiudesse, smettendo di sfornare religiosi. Studiò da prete; probabilmente, a suo tempo, si innamorò, ma come il grano che cerca la terra, scelse l’abbraccio del divino, quell’amore in cui l’avevano immerso i genitori sin da piccolo, anima e corpo. Fu destinato parroco in uno sperduto paese del crinale. Non fece mai carriera, glielo impedì la sua mitezza; eppure, col tempo, giunse a vivere un rispettabile sacerdozio in una popolosa parrocchia lungo le rive del Secchia, sull’altro versante.

“Hai messo su capelli grigi che mi pari un vecchio di cento anni fa. Distinto, però. Forse nonno Pietro, quello che dal Carso era tornato coi capelli bianchi e i baffi alla Vittorio Emanuele”, scherzava Rina che, da tempo, s’era abituata alla vita sedentaria ma distinta di Peder.
“Siamo invecchiati insieme e l’argento della tua chioma non va di moda per quel che si vede in giro” replicava Peder, sorpreso per i due esercizi di parrucchiera che avevano tanto successo sul finire degli anni Settanta a Oriseto.
Gli anni Ottanta portarono un barlume di benessere. “Ma non ci restituiranno mai più l’unione coi nostri figli”, rilevava con un filo di malinconia la Rina.
“Eppure la vita ci ha fatto dono di vivere assieme”, rispondeva Peder il quale, da quando era cresciuto, non riusciva a liberarsi di uno strano vizio.

Accadeva che, dopo pranzo, Rina sbrogliava tavola e Peder, esonerato dai lavori domestici a patto di curare la stufa e i lavoretti più pesanti, poteva riposarsi un poco. Sua era la scranna della matrona. Dove si consumava il rito della lettura dei titoli più grandi del Carlino. Poi, ultimato il giornale, la mano al taschino e all’orologio a cipolla. Poco prima delle tre del pomeriggio eccolo, come sempre, indossare il suo panciotto, le scarpe, il cappello e, negli ultimi anni, prendere il bastone.
Le prime volte Rina ne fu incuriosita, poi, considerata la metodicità del rituale, anche indispettita o, meglio, ingelosita. In seguito capì. E, ossequiosa, ammirava il marito con occhi di una ventenne innamorata.
Peder varcava la soglia di casa, la stessa soglia da dove, per generazioni, erano entrati i suoi avi e ora transitavano felici le anime delle persone care, quindi si recava sull’aia. In silenzio levava il cappello portandoselo sul petto reclinando contemporaneamente il capo.

A pochi giorni dalle nozze, Rina aveva capito. Ma non si era trattenuta: “Perché tutti i giorni, all’orario della scomparsa di nostro Signore, ti inchini?”
“Se la gente imparasse a piegare il capo più spesso, il mondo sarebbe diverso” aveva replicato lui attingendo a un sapere antico. Forse lo stesso sapere che lo aveva portato, senza chiedere un soldo in cambio, a concedere gratuitamente, un fazzoletto di terreno accanto a casa sul quale la sezione locale degli Alpini aveva eretto il proprio rifugio, luogo di canti, riunioni, memorie, solidarietà.
I giorni di gelosia di Rina durarono assai poco. Anzi, quando poteva, sottovoce, aggiungeva una preghiera in cuor suo.
C’è ancora, in paese, chi ricorda il gesto di Peder.

Il giorno dei funerali di Peder, spentosi come una fiamma, serenamente, nel letto di casa, fu in parte motivo di sollievo per Rina ritrovare i figli uniti, così bravi nel svolgere le pratiche di cui lei nulla sapeva. Anzi, don Elia, che aveva impartito gli oli santi al padre, era un vero e proprio esperto. Alle 15 era fissato il funerale. La cassa sarebbe stata calata nella piccola tomba di famiglia costruita da Peder nel camposanto, nella nuda terra, un paio di decenni prima. Dentro già riposava Mariolino.
Bussarono alla porta.

“Elia, Elia guardi cosa ho trovato”, entrò, arrossato, Luigi, che solo 20 anni prima aveva imparto l’arte dei tirar su muri proprio da Elia. Ora era divenuto operario e necroforo per il Comune. Teneva in mano un mattone.
Rina riconobbe quel laterizio ed ebbe un sussulto.
“Cosa è Luigi?” chiesero invece a una voce le figlie, ora cinquantenni, Agnese e Lucia.
“E’ un mattone, di quelli cotti che si fabbricavano un tempo alla fornace e che Peder sapeva fare, lo so perché fece in tempo a insegnarlo pure a me. Li ho trovati nella tomba, impilati, ce ne sono più di un centinaio in due cumuli. Li ha posti lì, credo, vostro padre…”
Elia e Rina avevano già inteso: per facilitare il lavoro di Luigi “il becchino”, come la gente continuava a chiamare Luigi, Peder aveva avuto cura di lasciare all’interno i mattoni impilati della propria tomba.
“In due pacchi”, spiegò Elia, “per le volte che sarà utilizzata la tomba”. E proprio meno di due anni dopo fu la volta di riaprire il loculo in terra per posarvi il corpo di Rina. La quale, senza Peder, proprio non sapeva stare.
Stanca, malata o semplicemente affaticata da quasi novant’anni di vita, poco prima di spegnersi, però, Rina aveva chiamato accanto a sé il presidente dell’Associazione Alpini, Nino, amico di una vita del marito. Chiese di rimanere in stanza sola con lui.

“Come le ultime foglie sugli alberi, così sono i secondi che mi restano, Nino – disse la donna -. Siate buono e allungatemi il portafoglio che è nella credenza”, chiese con la consueta gentilezza. Avutolo, estrasse con le ultime forze ottanta mila lire e gliele porse. “Il giorno del mio funerale, aprirete il rifugio e berrete per me e per Peder”. Gli Alpini così fecero. Ma prima di portare la cassa di Rina al camposanto deviarono proprio per la strada del rifugio alpino. Qui giunti la posarono a terra. Stapparono il vino migliore, affettarono il pane, del buon salame e un prosciutto fatto in casa. Cantarono per lei, per Peder, per il loro nonno che aveva fatto il Carso, per gli Alpini di Oriseto e per tutti coloro che non erano tornati a casa. Ci fu chi disse “E’ un funerale felice”. “Come dovrebbero essere tutti i funerali” osservò uno dei cinque nipotini di Peder e Rina.
“Hai sentito come cantavano bene gli Alpini?” disse Rina una volta di nuovo accanto al suo Peder.
L’ultimo mattone della fornace di Peder si chiuse sopra di loro. Eppure una luce più forte del sole illuminò i loro visi. Giunto il Trigesimo Elia si stupì un poco nel celebrare la messa per la madre, così come fecero le sorelle Lucia e Agnese e con loro i cinque figli. Nella chiesa c’era un sole insolito per essere una sera di primavera. Il giorno seguente, un nipotino, non importa il figlio di chi, si accorse che erano le tre del pomeriggio e chinò il capo. Così pure il giorno seguente e altri ancora.
Mariolino, l’angioletto seduto per un attimo sulla tomba di famiglia, sorrise.

* * *

Nel racconto ci sono episodi veri (il chinare il capo alle tre del pomeriggio, i mattoni nella tomba e l’offerta del terra e il bere per il canto alpino) da ricondurre a tre montanari realmente vissuti a Valestra, Ramiseto e Palanzano. A loro, egregi testimoni della vita montanara, sono dedicate queste parole.

5 COMMENTS


  1. Grazie Gabri. Senza esagerare penso di avere avuto come nonno un vero santo. Forse non è sui calendari, forse non ha un altare: ma ora è ugualmente vicino a Dio. Grazie di averlo ricordato in questo bellissimo racconto. Grazie, Nonno Emilio!
    Grazie Gabri!

    (Mirko Castagnetti)

  2. Poesia in prosa
    Grazie Garlotti per il bel racconto, toccante nella semplicità delle parole e della vicenda che narra. Mi rammenta “Elegie duinesi” di Rainer Maria Rilke, la soglia di casa consunta dai tanti passi di chi l’ha attraversata…
    Spero di leggerti ancora.

    (Lacridigà)

  3. Antichi ricordi e sapori….
    Eh, bravo Gabri: hai fatto centro ancora una volta, riportando alla mente, ma soprattutto al cuore, i ricordi semplici ma veri di persone care e che purtroppo non ci sono più. In questa società dove se non produci e non consumi non esisti, fa piacere vedere che ci sono ancora persone che ragionano col cuore e col buon senso di una volta, rispettando i tempi, vivendo con semplicità e dando il giusto valore alle cose.
    Grazie, Gabri, di averci riportato un attimo indietro e coi piedi per terra.

    (Elisabetta Marmiroli)


  4. Mi sono davvero commosso a leggere il racconto “Alle tre del pomeriggio”. Si ritorna alla propria infanzia, ritorna con nostalgia quel piccolo mondo antico di Valcieca e dintorni in cui la povera gente, vivendo di poco ma con grande dignità, ti faceva capire come si sta al mondo, volando basso e rispettando tutti. Terre alte da favola, personaggi leggendari, monti che circondano i paesi dell’alta val d’Enza come per preservarli dall’Altro mondo, il nostro.

    (Francesco Compari)


  5. Non conosco i posti citati dall’autore se non estrapolandoli dai racconti di mio padre. Leggendo “Alle tre del pomeriggio”, però, mi sono immerso nell’Aristocratica umiltà e semplicità di quei luoghi e mi sono commosso. Grazie per aver ricordato parole ormai desuete come: dignità, umiltà, solidarietà…

    (Sergio Ferrari)