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Bossi non c’entra. Il dialetto sì

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A forza di gridare “al lupo al lupo”, si sa, si corre il rischio di non essere ascoltati quando il lupo arriva davvero. E proprio ora che il dialetto sta per essere divorato dal vorace italiano nessuno dà peso alla richiesta della Lega Nord. A maggior ragione se fatta, d’estate, a improbabili richieste di gabbie salariali, “Roma ladrona” e via di questo passo.
Si finisce così per buttare via il bimbo con l’acqua sporca, o forse sarebbe meglio dire il vecchietto. Il dialetto appunto. Tutti a dare contro all’accoppiata Bossi - Calderoli, a stracciarsi le vesti per la difesa della Costituzione e altre amenità che, col buon senso e l’intelligenza culturale, azzeccano poco. La questione, riteniamo, non è solo politica. La politica, certo, può definire gli strumenti per la tutela del dialetto. Ma la salvaguardia di questa(e) lingua(e) è invece questione proprio di buon senso e di opportunità.

Di buon senso perché nessun genitore si sognerebbe di non tramandare ai figli il linguaggio dei propri avi. In quei suoni e in quelle parole irripetibili c’è un patrimonio fatto di qualche millennio di storia. Il dialetto montanaro, vieppiù e al pari di altri dialetti, contiene termini unici assai lontani dall’italiano. Sono perle e ricchezza del nostro vivere in montagna.
Nei suoi detti c’è l’antico patrimonio di generazioni e la saggezza dell’interpretare le stagioni o i fenomeni naturali. “Quand al Ventàass al gh’ha al capell to la giubà e ancha l’ombrel”. Ed è buon senso conservare le inflessioni dialettali che differenziano – e quindi caratterizzano – un abitante di Vetto da uno di Cola, uno di Casale da uno di Garfagnolo, uno di Nismozza da uno di Cerreto. Pare quasi di sentire questa vocalità. Come potrebbe essere di buon senso perdere del tutto una lingua parlata che la metà dei reggiani ancora oggi capisce?

E’ un fatto di opportunità, salvaguardare il dialetto, perché è la nostra ricchezza assieme alle montagne. Lo è, oltre che nei proverbi che aiutavano i compiti della vita, nelle poesie, nelle canzoni, nelle commedie che sono riproposte senza distinzione di credo politico, lo è nella storia delle antiche carte dove le inflessioni dialettali influenzano l’italico dei rogiti medievali, lo è nei nomi dei campi degli agricoltori (una meraviglia degna di censimento). “E’ un mondo che non ci appartiene solo per ignoranza” scrisse Gianbattista Galassi nella prefazione de “La veta muntanara”. Si stima (Wikipedia) che sulla linea Vetto-Baiso verso l'alto crinale, l’insieme di dialetti parlati presentino molte somiglianze col dialetto lombardo occidentale e, quindi, con le popolazioni da lì scese e fermatisi sulla linea gotica. Qui dentro c’è la nostra storia e, quindi, le nostr radici per guardare al futuro. La salvaguardia del dialetto è un fatto di opportunità perché nelle nostre vacanze siamo felici di recarci in Sardegna e sentire parlare quell’inafferrabile sardo, in Alto Adige e sopportare soddisfatti gli Altoatesini con le loro tipiche colazioni servite in rigoroso tedesco, in Valle d’Aosta e capire le assonanze col ‘patuà’, sulla Rambla di Barcellona e intendersi coi Catalani col nostro dialetto. Altrettanto per chi sale in Appennino.

Perché rinnegare, ora, questo patrimonio? La televisione (prima) e le scuole (poi) hanno contribuito (giustamente) a suggellare l’italiano come lingua ufficiale: ma non si vada oltre. I tempi in cui parlare dialetto era sinonimo di comportamento un po’ rozzo e anche di povertà sono passati. Strano, poi, che questo sia accaduto in Emilia ma non, ad esempio, in Veneto, dove i giovani ancora parlano orgogliosamente nella lingua del territorio.
Noi siamo per salvare la nostra lingua madre. E la si insegni nelle scuole, la si riscopra alla tv e (ci rivolgiamo alle amministrazioni) nelle indicazioni turistiche delle nostre località. Preda accanto a Pietra, Castelnov accanto a Castelnovo, Secià accanto a Secchia...

14 COMMENTS


  1. Io penso invece che, tra tutte le sciocchezze che i leghisti riescono a dire ai loro raduni tra una fetta di anguria e l’altra, questa sia la madre di tutte le sciocchezze. Spettatori del declino irreversibile che sta conoscendo la lingua italiana, si sente davvero il bisogno di andare a insegnare il dialetto nelle scuole? In Italia ci sono persone che arrivano all’università con difficoltà enormi anche a scrivere un semplice testo e, temo, con non minori difficoltà nella comprensione di un testo scritto. Non vi è alcuna questione, nè di opportunità nè di buon senso, nel voler insegnare il dialetto nelle scuole, se non quella di mantenere viva una tradizione. Ma oggi viviamo in una dimensione europea e mondiale e le lingue da conoscere sono ben altre, l’inglese in primo luogo. Lasciamo alle famiglie, se ne avranno voglia, il compito di tramandare il dialetto. Io “pretendo” che un napoletano che viene ad abitare a Reggio Emilia, non già dimentichi il proprio accento, ma che parli un italiano corretto e non che mi si rivolga in dialetto napoletano. E credo che la cosa sia reciproca: se io vado al sud o in Veneto non posso avere la pretesa che la gente conosca il dialetto reggiano. Se vado in Sardegna può divertirmi ascoltare per un po’ il dialetto sardo, ma se mi parlano in dialetto sardo e io non ci capisco nulla allora il divertimento si muta presto in fastidio… Il dialetto, se capita, lo si parli al bar o in casa propria con i propria amici e parenti, ma se arriva un turista gli parleremo forse in dialetto? E poi, quale dialetto si dovrebbe insegnare? Il parmense a Parma e il reggiano a Reggio Emilia? E nell’Appennino si insegnerà il dialetto montanaro e nella pianura quello della pianura? E, come già si ricordava, dal momento che esistono grandi differenze persino tra una frazione e l’altra, a Ligonchio si insegnerà il dialetto di Ligonchio e a Castelnovo quello di Castelnovo? E quale “certificazione” dovrebbero avere i presunti insegnanti? Basterebbero queste considerazioni (ma se ne potrebbero aggiungere molte altre) per far vedere l’assurdità di una simile proposta.
    Salute.

    (R.S.)


  2. Giustissime considerazioni, le tue, Gabriele, ma altrettanta attenzione si dovrebbe riservare all’idioma nazionale, ormai sempre più barbaramente stravolto e distorto… Certo, un buon dialetto è molto più gradevole all’ascolto di quell’italiano brutalizzato che si propone quotidianamente alle nostre orecchie!!

    (Lucia Manicardi)

  3. Il dialetto è una lingua viva
    La lingua italiana serve per uniformarci, ma il dialetto è veramente una lingua viva e soprattutto va rivalutata ed insegnata correttamente ai nostri figli, perchè molto più incisiva ed efficace, vera e piena di sfumature che rendono effettivamente quello che realmente una persona vuol dire. Si pensi solo a come si dice una frase ormai banalizzata dall’uso comune e dall’italiano: “Ti amo”. Provate a tradurlo in dialetto e si capisce chiaramente quello che uno vuol dire senza tanti giri di parole.

    (Elisabetta Marmiroli)


  4. Gentile G.A., non è la salvaguardia del dialetto ad essere la madre di tutte le sciocchezze; la madre di tutte le sciocchezze è la pretesa di insegnare il dialetto nelle scuole. E credo sia una sciocchezza per le ragioni (a mio avviso difficilmente confutabili) che ho sopra esposto. Le lingue si salvaguardano da sole con l’uso; se qualcuno le usa nella quotidianità allora esse si mantengono e si trasmettono. Al contrario di quello che si può pensare, codificare una lingua significa farla morire un po’. Una lingua viva segue la parabola di tutte le cose vive: cresce, si sviluppa, evolve e, alla fine, decade e perisce. Se pongo l’attenzione sull’italiano è solo per il fatto che questa lingua è una delle poche cose (forse l’unica) che lega gli abitanti di questa nazione. Ma neppure gli Accademici della Crusca, cioè dell’organismo che sarebbe deputato alla conservazione della lingua italiana, hanno mai assunto posizioni “conservatrici”. Se il congiuntivo scompare, per esempio, a vantaggio dell’indicativo non si può che prenderne atto. Solo i francesi si sono arroccati in posizioni (spesso ridicole) di salvaguardia della lingua.
    Comunque (spero proprio di no) se mai si arrivasse ad insegnare il dialetto nelle scuole, forse anche noi un giorno arriveremo a fare l'”inganno della cadrega” o, se si preferisce, “d’la scrana”, per verificare se qualcuno appartiene o meno alla nostra comunità (@Lhttp://www.youtube.com/watch?v=rmR4wo1OYZo@=www.youtube.com#L).
    Salute.

    (R.S.)

  5. Mio pensiero
    E’ giusto salvaguardare il dialetto ma insegnarlo nelle scuole la vedo come una baggianata colossale. Semmai sarebbe meglio, per accrescere la nostra cultura, che gli italiani imparassero l’inglese, dato che su dieci persone soltanto una lo parla. All’estero siamo famosi per essere un po’ duri di comprendonio in merito all’apprendimento delle lingue straniere.
    At salot!

    (Mattia Rontevroli)


  6. 1- Il dialetto da preservare, in sè, non esiste; ogni lingua è un codice vivo ed in continua evoluzione.
    2- I dialetti sono infiniti, uno per frazione, ogni piccola comunità ha il suo. Non sono certo suddivisibili per macroaree regionali come vorrebbero semplicisticamente questi provocatori estivi.
    3- Perchè lorsignori non si pongono un’altra questione, alla luce degli oltre 2 milioni di analfabeti presenti nel nostro paese? Malignamente, mi verrebbe da dire, perchè forse tra i seguaci di questi imporvvisatori leghisti estivi di analfabeti se ne trovano parecchi.

    (Marco Costa)

  7. Il dialetto…
    Concordo con Arlotti sul fatto che dovremmo preservare il dialetto ed in qualche modo cercare di mantenerlo vivo in quanto è un legame con il nostro passato e le nostre tradizioni. Sicuramente l’inglese è molto più importante, soprattutto per noi giovani che dobbiamo raffrontarci con una sfida globale, in aziende che sempre più lavorano all’estero. Ma non penso che si possa o si voglia sostituire l’insegnamento dell’inglese con il dialetto. Le scuole spesso organizzano incontri e corsi pomeridiani; utilizzare un po’ di quel tempo per il dialetto potrebbe essere una buona idea. Sorrido invece a chi discorre dei 2 milioni di analfabeti, in quanto probabilmente se lo sono forse è dato dal fatto che a scuola proprio non ci siano andati, indipendentemente da ciò che veniva, viene o verrà insegnato.
    Saluti.

    (Mattia Davoli)

  8. Sulla punta della lingua
    Cari concittadini, credo non sia necessario informarvi che siamo arrivati oramai nel 2009. Nel 2011 si festeggeranno i 150 anni dalla tanto agognata, combattuta, sudata e sacrosanta unità d’Italia. Tutti sappiamo come eravamo prima: un puzzle di staterelli autoreferenziali con leggi, unità di misura, esercito e, non ultima, lingua propria. Deboli politicamente di fronte ai grandi stati nazionali europei, forti solo delle nostre tradizioni. Il dialetto nelle scuole, oggi, lo vedo come un’inutile spreco di energie e risorse. I nostri bambini faticano a parlare un italiano corretto e omogeneo da Bozen (Bolzano per noi) a Lampedusa, mentre arranchiamo in inglese, quando i nostri coetanei del nord europa lo hanno assimilato quasi come seconda lingua, con evidenti vantaggi nel mercato globale del lavoro. Giusto intervenire, invece, con iniziative extrascolastiche che ne salvaguardino l’integrità culturale e la dignità morale, visto che ancora oggi è visto da alcuni come un idioma “da ignoranti”. Credo quindi che il dialetto (quale dei tanti??) sia un tema da analizzare e salvaguardare; non a scuola, però, dove le priorità didattiche sono altre.

    (Alessio Zanni)

  9. Il dialetto
    Io non condivido il pensiero di Alessio Zanni riguardo l’unità d’Italia semplicemente perchè è vero che siamo una nazione unica dal Trentino Alto-Adige alla Sicilia, ma è anche vero che un calabrese è completamente diverso (come tradizioni e cultura) rispetto a un friulano. Questo è il bello del nostro Paese, composto da 20 regioni profondamente diverse l’una dall’altra, e per me cancellare queste tradizioni è una cosa vergognosa. Il dialetto è una cosa molto importante perchè ti fa sentire vicino alla tua comunità e ti lega a determinate tradizioni. Ok, insegnarlo a scuola può non essere una priorità, ma è giusto parlarne e discuterne perchè ci sono altre attività inutili. La Spagna riconosce le comunità locali e le tutela; perchè lo Stato italiano riconosce solo 5 regioni (quelle a statuto speciale) più il Veneto (considerato dalla Costituzione come popolo)? O si tutelano tutti o nessuno, cari amici castelnovesi, non trovate?
    Vorrei poi soffermarmi sull’inglese insegnato a scuola: io sono convinto che la generazione degli anni 2000 imparerà un ottimo inglese perchè hanno incominciato a farlo dalla prima elementare. Se un popolo non impara l’inglese è colpa anche di chi lo insegna perchè si possono fare anche 8 ore la settimana di inglese ma se colui che insegna è incapace allora è inutile. Altra cosa sull’inglese: gli italiani non lo sanno perchè la generazione dei 40-50enni a scuola studiava francese, quindi cerchiamo di guardare i problemi da più punti di vista, anzichè scagliarci subito sul dialetto.
    Cordiali saluti.

    (LM)

  10. Medioevo
    Io, personalmente, non mi sento completamente diverso da un calabrese, da un sardo, da un siciliano. Io mi sento italiano. Avremo un patrimonio tradizionale differente, questo è vero; parleremo certamente con accenti diversi ed espressioni linguistiche differenti; credo però che alla base di una coscienza nazionale non sta l’identico (e monotono) patrimonio tradizionale, ma prima di tutto si pone la cultura di base e l’orgoglio di sentirsi nazione. Le differenze superficiali e, devo dire, del tutto trascurabili, sono altresì riscontrabili anche nei più antichi stati nazionali (come Inghilterra e Francia), con risultati molto simili a quelli italiani. Non andate a chiedere ad un londinese se per caso non abbia origini scozzesi!!! D’altro canto, credo che istituzioni come lo statuto speciale di alcune regioni siano del tutto ingiustificate nella nostra era e non facciano altro che fomentare queste piccole differenze generando inutili sentimenti indipendentisti. Siamo tutti uguali alla legge; vorrei che fossimo tutti uguali anche di fronte allo Stato. Basta principati e regionalismi, basta a inutili campanilismi e prendiamoci coscienza della nostra nazionalità: non siamo più nel medioevo.

    (Alessio Zanni)

  11. In risposta ad Alessio Zanni
    Non vorrei andare fuori tema nel darti una risposta. Concordo pienamente con te quando parli dello spreco delle Regioni a statuto autonomo perchè penso che io che nel 2009 siano assolutamenti inutili. Inoltre siccome godono di benefici fiscali non indifferenti (IVA al 4%) producono delle differenze tra regione e regione.
    Io però a differenza tua punterei sulla differenza tra regioni, garantendo a tutte il diritto di autoregolarsi in materie quali la sicurezza, la sanità e l’istruzione (ovvio che deve esserci una linea guida per tutto il territorio nazionale). L’esempio della sanità è un ottimo caso di buona o cattiva gestione, non trovi? Non è un’offesa dire che un emiliano è diverso da un calabrese, anzi è un pregio che poche nazioni possono vantare, è bello essere diversi sotto la stessa bandiera tricolore. Io però prima che sentirmi italiano mi sento emiliano e non mi vergogno a dirlo. Io non sono per la cancellazione delle tradizioni e penso che l’esempio tedesco e l’esempio spagnolo siano da imitare. Non sono paesi anti democratici no? Anzi, la Germania insegna tanto a tanti. La Spagna riconosce e tutela le varie lingue locali, pur obbligando ogni singola regione a insegnare correttamente lo spagnolo. Perchè in Italia non è possibile questo?

    (Luca Malvolti)

  12. Chi sono?
    Partiamo da questo presupposto: io mi sento PRIMA DI TUTTO ITALIANO, fiero portatore del tricolore e dei valori che hanno caratterizzato il nostro paese (tutto) nel tempo. Non tutti la vedono in questo modo, però, e le opinioni vanno rispettate.
    Detto questo, credo altresì che puntare sulla differenza tra regioni, che tra sanità, scuola, infrastrutture, lavoro ecc… è già anche troppo marcata, sia uno strano anacronismo di fronte al fenomeno del mercato globale e all’evoluzione della società in senso multietnico. Questi possono essere cambiamenti graditi o non graditi, auspicabili o deprecabili, ma comunque ineluttabili e incontrovertibili. Nel 2009 credo sia ora di puntare sulla nazione italiana, sui 150 anni dall’unione che tanto sangue ha dovuto piangere prima di essere finalmente completata. Ti dico un sogno nel cassetto? Un’utopia? Vorrei che mio figlio sentisse fortemente la sua appartenenza europea, cosa che io non riesco ancora a fare, forse per educazione, forse per eccessivo nazionalismo.

    (Alessio Zanni)