Un recente fatto di cronaca nera - un bambino suicidatosi dopo una nota a scuola - è prepotentemente entrato nelle nostre case attraverso i media. Un fenomeno che, a volte, tocca anche il nostro Appennino e ci pone, sempre, dinnanzi a tanti interrogativi. Di seguito, le parole di don Chiari, stimato editorialista di Redacon.
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Gli occhi di una mamma! Sono splendidi! Ancor più scintillanti quelli di una donna in gravidanza! Se il bimbo o la bimba sono attesi, quanto più si avvicina il giorno della nascita, tanto più diventano luminosi, profondi, richiamando i versi di Garcia Lorca. “In fondo agli occhi si aprono infiniti sentieri:.. le pupille non hanno orizzonti, in esse ci perdiamo come in foreste vergini…”
Ma è possibile immaginare gli occhi di una mamma di fronte del figlio di nove anni, appeso senza vita ad un lampadario? Gioco assurdo o suicidio, non interessa ad una madre che lo ha generato, che lo ha visto piccolo, che lo ha sognato grande, che non può immaginare che muoia prima di lei, l’agnello prima della pecora! Quale mare potrà raccogliere il pianto di quella mamma? Chi la potrà consolare? E il papà? Dicono che gli uomini soffrano di meno, ma è solo un modo di dire: Giobbe era un padre e la sua sofferenza era grande agli occhi della gente, agli occhi di Dio.
Leggendo la notizia, ho subito pensato a loro, ai nonni, ai compagni di classe, alle insegnanti, alla comunità cristiana, dove è cresciuto: volti tristi, confusi, impietriti dalla tragedia. Non è la prima volta che m’imbatto in queste drammatiche fughe dalla vita! E’ sempre stato difficile trovare un perché ragionevole! In alcuni casi, è la solitudine, un tradimento, la sazietà della vita come per quel giovane romagnolo di 17 anni, che si è lasciato andare perché aveva tutto.
Ma un ragazzo di 9 anni che motivo aveva di fuggire dalla vita in un modo così drammatico? Andarsene nella stagione della spensieratezza, dell’allegria? Spero davvero che sia stato un gioco, un triste gioco, allora mi sarebbe facile dare colpa alla televisione, ad una delle tante sequenze di morte che trasmette in qualsiasi momento della giornata!
Se non fosse così? Non ho il coraggio di pensare diversamente. Sarebbe aumentare il dolore di una mamma, che non potrà mai cancellare dagli occhi la triste immagine del proprio figlio, morto, con il volto violaceo, cianotico; il dolore di un papà, che si rammarica forse per non essere stato a casa nel momento del dramma per poterlo prevenire.
Era il dispiacere di Franco, un ragazzo di 14 anni: “Perché non sono tornato a casa prima? Entrato, la mamma non c’era. Ho avuto un dubbio: era molto triste in quei giorni, lo era di più da quando il papà se n’era andato, portandosi via tutto. Ho salito i cinque gradini, che conducevano alla soffitta. Ho aperto la porta: lei era, là, con una corda al collo! Sono sceso per strada, gridando”.
Quanto dolore di fronte alle fughe della vita di ragazzi e ragazze, di adulti o anziani! Sa sempre di mistero come le sanno organizzare, con quale lucidità e determinazione! Ma fuggono da dolore, senza rendersi conto della sofferenza immane che lasciano in chi rimane. Chi lo fa per castigare una persona cara, dalla quale si sente deluso, non si rende conto di quanto il castigo sia pesante da portare per tutta la vita!
Essere vicini a chi rimane, è molto importante. Vicini con la parola e con il silenzio: le troppe parole non consolano, a volte infastidiscono. Vicini, senza giudicare, senza addossare colpe. Già, da sole, queste morti lasciano dietro tanti sensi di colpa! Vicini con discrezione, pronti a dare una mano, a rialzare chi cade nel deserto della depressione. Vicini, indicando l’Oltre.
Sonia, 26 anni, era venuta da me: “Io non sono battezzata, non sono mai entrata in una chiesa, non ho mai parlato con un prete prima d’ora. Ma ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a credere che un giorno rivedrò il mio Massimo. Se n’è andato, lasciandomi solo un biglietto, dove mi invitava a non piangere la sua morte, altrimenti sarebbe venuto di notte a farmi solletico ai piedi. E’ fuggito dalla vita, da me, perché non sopportava più le ingiustizie della guerra, della fame, della miseria. Voleva cambiare il mondo, non ce l’ha fatta! Ha scelto di morire!”.
Siamo andati insieme a pregare sulla sua tomba: “Non importa se non sai pregare, ascolta la Parola di uno che ne sa più di me. Abbiamo letto il Vangelo della Pasqua. Gliene ho regalato una copia. Se vuoi, ogni tanto leggi qualche pagina”… Pochi giorni dopo, l’ho vista in chiesa, in un angolo, il più nascosto: “Continuo a non credere in Dio. Ma mi dà forza la sua parola. Sto pensando seriamente che Massimo sia andato avanti a prepararmi un posto!”. Ho visto i suoi occhi meno tristi, più sereni. Ma quanta fede ci vuole per accettare un suicidio? Quanta speranza?