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“Dobbiamo imparare ad attendere la morte”

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Si sono svolte nella giornata di ieri, al Santuario della Beata Vergine dell'Olmo a Montecchio, le esequie di don Giuseppe Ferrari (Fra' Remigio), a lungo custode dell'eremo della Pietra e parroco anche a migliara.

Alla celebrazione erano presenti una quarantina di sacerdoti e numerose persone. Tra i parenti di don Ferrari, in prima fila la novantaduenne sorella, Sr. Marina, Orsolina di Verona e fino a 7 anni fa in servizio a Reggiolo.
Come ultimo saluto, hanno rivolto delle commosse parole di ringraziamento a don Giuseppe un parrocchiano di Ginepreto e una giovane mamma di S. Sisto, come nelle preghiere dei fedeli erano intervenuti un parrocchiano di Sologno e una volontaria della Casa protetta di Poviglio, dove don Giuseppe celebrava la Messa quotidiana.

Don Giuseppe Ferrari (originario di San Benedetto Po) è stato sepolto nel vicino camposanto, accanto alla tomba di don Ennio Caraffi, parroco a Montecchio e fondatore della Casa San Giuseppe (dove don Ferrari, nell'ala riservata al clero ha terminato la sua esistenza terrena) e vicino ad altri preti di origine montecchiese.

Riportiamo integralmente l'omelia del vescovo Adriano Caprioli.

* * *

"Gesù cammina sulla morte"

Don Giuseppe ci ha lasciati, dopo prolungata e serena agonia, ieri mattina, il 4 agosto, assistito e accompagnato dalle cure e dalla preghiera della comunità di Montecchio: le Suore indiane “della Casa di Betania”, personale, confratelli sacerdoti, in particolare dalla presenza amica di Mons. Fabiano Tortella.

“Dobbiamo imparare ad attendere la morte”, mi confidava nella sua saggezza pastorale lo stesso don Fabiano, una sera in cui io ero venuto a pregare e — come si diceva una volta — a “raccomandare l’anima” di don Giuseppe. La morte ha trovato preparato don Giuseppe, come raccomandava la tradizione cristiana, che arrivava a pregare: “a morte improvvisa, libera nos Domine!”.

Uguale raccomandazione ci viene anche dalla odierna pagina di Vangelo (Mt 14,22-36), che vorrei commentare brevemente come fosse l’ultima omelia di don Giuseppe.

“Sono io, non abbiate paura”

Questa pagina del Vangelo di Matteo viene subito dopo quella della moltiplicazione dei pani (Mt 14, 13-21). Il miracolo della moltiplicazione avrebbe potuto suggerire ai discepoli sogni e illusioni pericolose, come quella di risolvere qui su questa terra il senso della intera esistenza! E Gesù obbliga i suoi discepoli ad attraversare il mare, a passare all’altra sponda. Gesù anticipa qui il senso stesso della sua esistenza, invitando i suoi discepoli presenti e futuri a condividerla, mettendo in conto la sua stessa morte.

Diamo uno sguardo ai diversi particolari del racconto evangelico: sono il mare, la notte, un vento selvaggio che gonfia le onde. Tutti questi elementi suggeriscono un pericolo mortale, in modo particolare il mare, che per gli Ebrei era come l’abisso oscuro della morte, non certo l’attuale luogo di vacanza! I discepoli si trovano dunque in una condizione in cui le forze che congiurano a favore della morte sembrano prevalere.

Gesù ancora una volta compie il miracolo: non la moltiplicazione dei pani per continuare a vivere al tramonto di una giornata terrena, ma il miracolo di annunciare a tutti l’evento della vita che non muore, camminando sulle acque della morte. E la verità vitale, rivelata dal prodigio, è questa: c’è qualcuno che è più forte di tutte le forze di morte. Come Mosè un giorno aveva separato le acque del Mar Rosso (cf. Es 14,15-23), così Gesù apre un passaggio perfino sulle acque della morte, pronte a inghiottire quella fragile imbarcazione che è la nostra vita.

“È un fantasma!”, gridano i discepoli. La stessa cosa sarà detta anche all’indomani della Pasqua (cf Lc 24,37). E la risposta non si fa attendere: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. È la stessa risposta che Gesù Risorto darà ai discepoli riuniti nel cenacolo a porte chiuse per paura (cf Lc 24,38-39). C’è un particolare che merita un’attenzione: Gesù compie il miracolo dopo avere passato una notte in preghiera, solo sulla montagna, com’era solito fare dopo la giornata di intenso lavoro in mezzo alla folla.

“Ora et labora”

Don Giuseppe ha chiuso la sua lunga giornata terrena così come l’aveva incominciata: nella preghiera. Nato a San Benedetto Po in terra mantovana, a pregare ha incominciato in famiglia, educato alla scuola della preghiera domestica. Per pregare sempre aveva scelto di entrare a far parte della comunità benedettina del monastero di Parma. Inviato come fratello religioso al piccolo monastero della Pietra di Bismantova, ha lì, per diversi anni, pregato secondo le ore della Regola di San Benedetto.

Ora et labora, come inculcava la regola benedettina. Non la preghiera doveva interrompere il lavoro, come raccomanderebbe l’attuale cultura del fare, dell’intraprendere, del “fare interminabile”, ma, al contrario, il lavoro diventava il lungo la giornata del monaco una sosta, una doverosa attesa di riprendere l’ininterrotta preghiera, secondo l’ammonimento evangelico: “Pregate, pregate sempre, senza interruzione” (cf Lc 18,1; 1 Ts 5,17).

Questo non vuol dire che fra’ Remigio — questo era il nome scelto per la professione monastica — non abbia lavorato, o lavorato poco, al contrario. Per ben trent’anni, come fratello religioso all’eremo della Pietra ha rappresentato, similmente a Gesù figlio del falegname per trent’anni a Nazaret, una figura di monaco operoso, apprezzato dai contadini del posto che lavoravano i fazzoletti di terra per moltiplicare il pane per sé e per la propria famiglia; con loro è diventato anche capo cantiere per salvare santuario e monastero dalle infiltrazioni di acqua che ne minacciavano la stabilità: un miracolo di ingegneria locale!

E per offrire ogni giorno il pane e il vino, frutto della terra e del lavoro umano, don Giuseppe nella sua inquieta volontà di servizio ha chiesto di diventare sacerdote. Così, dopo il parere favorevole di tanti confratelli della montagna ed una sintetica preparazione al Seminario di Marola (lo potrebbero confermare qui don Umberto Iotti, allora direttore del Centro di spiritualità, e mons. Gianni Gariselli, incaricato di seguirlo nello studio), è stato ordinato nella chiesa abbaziale di Marola per imposizione della mani del vescovo Gilberto Baroni, non nuovo a questi casi di vocazioni particolari. Don Giuseppe ha svolto il ministero pastorale prima a Migliara, poi a S. Sisto, Enzola e Casalpò nella zona di Poviglio (ricordo ancora che in una giornata calda come questa dell’estate del ’99 mi venne a chiedere di ritornare in montagna), infine a Sologno e a Carù di Villa Minozzo, non senza un breve ritorno alla sua amata Pietra di Bismantova e alla parrocchia di Ginepreto.

Ieri era la memoria del Santo Curato d’Ars. Di lui è stato detto che la storia della sua vocazione sia stata la storia della sua preghiera. Di Gesù, prima ancora, bisognerebbe dire altrettanto, e Luca ne parla proprio così nel suo Vangelo, presentando il cammino della sua preghiera: nel tempio già a dodici anni, nell’inizio del suo ministero con il Battesimo al Giordano e nella chiamata dei Dodici, con la gente prima e dopo i miracoli, con gli apostoli nel Cenacolo per l’Ultima Cena, solo con il Padre nel giardino del Getsemani, la vigilia della sua morte.

Non si dovrebbe così scrivere anche la vita del presbitero, di ogni presbitero, questo “alter Christus”, come la storia della sua preghiera? Credo di sì. Forse, non sarà questa la storia più conosciuta di un prete, più presente nella memoria dei più, ma sarà questa la spiritualità più intima della figura di un prete, la ragione più vera per riprendere ogni giorno la sua attività, il segreto nascosto della fede per cui lottare la buona battaglia, proseguire la corsa, consegnarsi al Signore della vita.

+ Adriano Caprioli