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Giuseppe Alai, presidente Confcooperative Reggio Emilia e del Consorzio Parmigiano-Reggiano, sulla questione “montagna”

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Sull’ultimo numero del mensile di Confcooperative di Reggio Emilia (“Cooperative, uomini e imprese” n. 4, aprile 2008) compare un interessante articolo a firma del presidente Giuseppe Alai titolato “Lo sviluppo riguarda tutto il territorio. Superare il limite della “Reggiocentricità ancora presente”.

La sintesi in testa all’articolo recita: ”Occorre favorire una crescita omogenea, che mostra invece debolezze sull’asse Nord-Sud del territorio provinciale. L’eccessiva concentrazione sul capoluogo crea anche problemi pesanti sul piano della viabilità e dell’inquinamento. Le zone intorno a Reggio Emilia e la montagna non possono essere semplici serbatoi di manodopera. Problemi da affrontare in una visione ampia, per garantire futuro a settori maturi”.
Di seguito il testo integrale dell'articolo di Giuseppe Alai, che è anche, tra l'altro, Presidente del Consorzio del Parmigiano-Reggiano, che si inserisce nel vivace dibattito in corso sul futuro della nostra montagna.
Lo riportiamo integralmente con la gentile concessione della testata.

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Il dibattito che si è intensificato nella nostra città alla vigilia delle recenti consultazioni elettorali è stato caratterizzato da due elementi: da un lato lo scetticismo di una parte delle associazioni imprenditoriali sulla sua stessa utilità, visto che si denuncia l’assenza di continuità dopo il voto; dall’altra vi sono state sottolineature circa i bisogni della nostra realtà territoriale che talvolta mi sono parse troppo generiche, ovvero un po’ slegate da alcuni problemi urgenti e concreti legati allo sviluppo locale.
Mi spiego meglio: parlare di infrastrutture è quanto mai necessario anche a Reggio Emilia, ma nel momento in cui parliamo di viabilità, ed in particolare, ad esempio, del completamento delle opere previste sulla Statale 63, a cosa pensiamo? Credo che per i più si tratti di un’opera che consentirà agli abitanti della montagna di raggiungere più agevolmente i luoghi della città in cui si concentra la vita produttiva. Pochi, forse, pensano al contrario: ovvero al fatto che una simile opera può e deve legarsi alla creazione di nuove fonti di sviluppo in una montagna che può smettere di spopolarsi e di invecchiare, divenendo attraente per nuovi investimenti e per un esodo all’incontrario.
Questo ragionamento è propedeutico all’introduzione di quello che considero uno dei temi fondamentali per il nostro territorio, ovvero una “Reggiocentricità” eccessiva, che mostra le sue debolezze sull’asse Nord-Sud del territorio, quasi totalmente gravitante – in termini economico/produttivi – sul comune capoluogo, con l’esplosione di problemi che altrimenti sarebbero davvero assai più contenuti (dalla viabilità all’inquinamento, ad esempio). E dalla montagna il ragionamento può essere allargato alle altre aree periferiche.
Non è allora il momento di introdurre un pensiero forte sul policentrismo produttivo e sociale della provincia che valorizzi comunità e territori in un’ottica di sostenibilità ed integrazione vera?
Per decenni ci si è preoccupati di come raggiungere la città, ma più che mai è evidente un’altra opportunità: ovvero come far crescere quelle aree periferiche che da altrettanti decenni conoscono sviluppi e socialità “separate”, lasciate a se stesse.
Le zone a ridosso del capoluogo altro non sono divenute che un’estensione abitativa infinita e disordinata della città; le aree più lontane sono sempre più simili a serbatoi di forza lavoro per una vicenda che “non le riguarda”.
A me pare più che giunto il tempo di cambiare rotta, perché mi chiedo – ad esempio – chi terrà in vita, fra un paio di decenni (e forse meno), quel sistema agroalimentare che è risorsa primaria per tutta la provincia sia in termini economici che sociali? Chi renderà vive quelle comunità in cui le terre rischiano di essere messe a riposo e andrà sfaldandosi un sistema di relazioni sociali, di cultura e tradizioni che sono anch’esse una straordinaria risorsa ? Chi controllerà il 40% del territorio provinciale in montagna senza gli agricoltori e i caseifici: i turisti o le guardie?
Chi terrà in vita, anche nella medio/bassa pianura, la vitivinicoltura e gli allevamenti se si procederà ancora verso un’agricoltura industrializzata fatta di colture estensive a basso costo di manodopera?
Quali prospettive hanno l’artigianato di servizio, il commercio e lo stesso turismo in contesti svuotati di chi ne abbia cura, destinati ad accogliere i nostalgici della cattura delle rane nei canali quando i giovani cittadini – per usare un paradosso neanche tanto forzato – penseranno che la rana sia una consolle da videogame resistente all’acqua?
Abbiamo – mi pare – questioni serie e urgenti da affrontare, che a loro volta ne chiamano in causa altre, e tra queste la relazione tra territorio, realtà produttiva, bisogni sociali e immigrati.
E’ indispensabile – e dobbiamo ragionare sul come, con un ruolo tutt’altro che secondario per la cooperazione – che l’inclusione sociale assuma anche l’aspetto dell’imprenditoria e sia trainata dall’intraprendenza e dalla responsabilità delle imprese e delle professioni sociali, e non solo del lavoro dipendente e del lavoro pubblico, con un salto culturale e di modello dei servizi che segnerà o meno la vera inclusione e le vere risposte di tanti immigrati e di tante famiglie in contesti, tradizioni e storie diverse.
Lo diciamo senza timori e senza prudenze (è giunto questo momento): senza cooperazione di lavoro non si allargano e si restringeranno invece drammaticamente le opportunità di lavoro, reddito e integrazione per migliaia dei lavoratori più disagiati; non si sarà più competitivi e si perderà invece patrimonio e capitale nella ricchezza locale senza cooperative agroalimentari partecipate dai produttori sui propri territori di riferimento; non migliorerà e peggiorerà invece inesorabilmente il sistema dei servizi per la salute senza la cooperazione sociale.
Se così è occorre coerenza e sostegno.
Se così non è e si pensa a miracolose alternative nel mito del mercato o della pianificazione pubblica qualcuno lo dica chiaramente e (per cortesia) sia convincente.
Il nostro territorio – proprio nelle aree extracittadine più lontane dalla via Emilia ma ugualmente in città – ha bisogno di nuovi piccoli imprenditori, e non sarà la formazione, da sola, a risolvere il problema: servono capitali da destinare agli investimenti, serve nuovamente quella quota di capitale a fondo perduto da assegnare non solo agli ammodernamenti, ma in prevalenza all’avvio di nuove imprese, non necessariamente e non a tutti i costi innovative.
L’industria della finanza è nulla senza imprenditorialità diffusa e reticolo di scambio territoriale produttivo e creativo.
Le nuove eccellenze che si potranno raggiungere non annullano quelle tradizionali, che sono fonte di un reddito, di una ricchezza e di una distintività che appartengono al futuro del nostro territorio.
Si è spezzato quel filo generazionale che in passato ha assicurato continuità a molte imprese: ora, con quale filo possiamo ricucire questa continuità incrinata?
Per quanto pensi possa esercitare un grande ruolo, mi pare semplicistico rispondere che laddove non arriverà più il singolo imprenditore arriverà la cooperazione. Mi pare semplicistico e fuorviante, perché la cooperazione è impresa e imprenditoria e si alimenta in contesti in cui comunque si produce ricchezza economica e sociale grazie ad una diversificazione dei competitori che è segno di quella democrazia economica che a ciascuno assegna uno spazio e non monopoli.
Approfittiamo, allora, dei segnali consueti e un po’ stanchi che sono arrivati anche dalla campagna elettorale per ridare tono ad un confronto serio e approfondito su un futuro che mi vede ottimista, ma anche in parte preoccupato per l’assenza di uno slancio che vada oltre il pensiero rivolto all’indomani.
I pensieri possono andare molto più lontano, e persino ritornare, ugualmente a quel movimento che fa sì che la statale 63 serva per scendere, ma anche per salire in montagna.

(Giuseppe Alai, presidente Confcooperative Reggio Emilia)