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Onora il padre e la madre

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Cosa significa oggi onorare il padre e la madre?
Se andiamo su un vocabolario e cerchiamo la definizione di “onorare” troveremo: dimostrazione di rispetto ad autorità o a persone che si stimano. Quindi, in tal senso, l’imperativo onora il padre e la madre presuppone che questi siano autorità o persone degne della nostra stima.

Che significa?

L’altro giorno un ragazzo, Antonio, si è confidato con me e mi ha raccontato la sua storia, in particolare un pezzo di storia interrotta tra lui e il padre, perché il padre a 15 anni gli ha messo una pistola tra le mani ordinandogli di andare a sparare contro una saracinesca perché il proprietario non aveva pagato il “pizzo”.
Mi sono chiesto: come si fa ad “onorare” un padre così?
Sulla stessa linea non posso non pensare a Marianna, figlia di una madre che per tanto tempo ha tenuto gli occhi e il cuore chiusi, per non vedere e per non sentire un marito e un padre che violentava ripetutamente sua figlia.
O a Marta che, tra i propri figli e l’eroina, ha scelto quest’ultima lasciando che i Servizi Sociali si occupassero dei suoi bambini. Come potranno un giorno “onorarla” i suoi figli?

Qualcuno potrebbe obiettare che queste sono eccezioni, per fortuna lontane da noi e dalle nostre vite, storie di cronaca e di miseria indiscussa. Ma io ogni giorno devo fare i conti con queste realtà, l’eccezionale diventa il mio pane quotidiano e si intreccia con le altre piccole e grandi confidenze e sfoghi che, sono sicuro, molti non sentirebbero così lontani dalle proprie realtà. Mi riferisco alle tante ragazze e ragazzi che si sentono prigionieri di aspettative e volontà dei propri genitori, avvinghiati dalla paura di essere clonati per diventare quello che loro vogliono e, soprattutto, quello che vorrebbero che gli altri vedessero nei propri figli.

Tutto questo ci fa capire quanto oggi sia difficile crescere.
Crescere può voler dire, per molti bambini, essere spesso soli. Può voler dire avere spesso a che fare con genitori abbastanza distratti e incerti sul loro ruolo nella vita. Sembra, infatti, che stia emergendo un nuovo esemplare di genitore, che pone l’autorealizzazione, il dovere verso se stesso al di fuori del dovere verso gli altri, inclusi i propri figli; nello stesso tempo, però, questo genitore è dilaniato dal dubbio, non sa se la sua scelta è buona, non sa se sta educando bene, ha delle idee confuse su quale dovrebbe essere il suo ruolo, si sente suo malgrado soppiantato e sostituito dal contesto, dall’andazzo sociale e “moderno”, dalla complessità della vita stessa che impone altri valori e regole favorendo un senso di impotenza e inadeguatezza.

Crescere, ancora, può voler dire, quindi, ascoltare voci che per lo più provengono da macchine piuttosto che da persone conosciute: moltissimi bambini vengono posti davanti al televisore, la grande baby-sitter a cui addirittura si affezionano e vengono lasciati lì per ore e ore. Una volta si diceva che la televisione unisce ma in realtà i bambini oggi ce l’hanno in camera, i genitori anche. I videogiochi invadono gli spazi e i tempi, il silenzio è interrotto dagli SMS dei telefonini, il bambino è tranquillo e il genitore può finalmente riposare. Ma questo silenzio diventa, inconsapevolmente, solitudine per il figlio e barriera comunicativa per il genitore. Un silenzio rumoroso abitato da telefonini, computer, televisioni, in cui il virtuale sostituisce lentamente la relazione e la parola franca pregna di amore e intimità. Il nido familiare spogliato dalla culla della relazione viene invaso dalla nevrosi, dalle frenesie, dalle ansie, dai sospetti, dalle incomprensioni. Perde la parola, quella significativa, quella emozionale, quella che ha bisogno di tempo, di ascolto, di paziente e fiduciosa attesa, e di profondo rispetto dell’alterità in divenire.

Mi chiedo allora, come è possibile arrivare a pensare ad un figlio alla stregua di un possesso personale. Tutto il dibattito sulla fecondazione assistita mi ha lasciato l’amaro di interpretare come un desiderio di maternità si sostituisca al principio di maternità.
Come un figlio possa essere “cosificato” in “mio figlio”, come se avessimo perduto nella nostra società postmoderna il principio collettivo sociale e l’avessimo sostituito con un individualismo sfrenato e senza confini che ci porta a sacrificare anche i futuri di altri per la soddisfazione dei nostri desideri presenti.

E allora, se pensassimo che, anche noi siamo stati frutto di egoismo e non di amore?
È questa la nostra storia?
I figli di volta in volta sono stati forza lavoro, eredi, oggetti o per meglio dire strumenti di desiderio, ma mentre già nel concetto di forza lavoro c’era un’idea di vivere sociale, nell’oggetto del desiderio emerge soltanto il principio di proprietà consumistica di questa società. E allora forse dovremmo riscrivere il comandamento all’inverso: onora tua figlia e tuo figlio.

COME FRECCE NELL’ARCO

E una donna che reggeva un bambino al seno disse: Parlaci dei Figli.
E lui disse: I vostri figli non sono figli vostri.
Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,
E benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri:
Essi hanno i loro pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime:
Esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.
Potete tentare di essere simili a loro, ma non farli simili a voi: La vita procede e non s'attarda sul passato.
Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell’Arciere;
Poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell'arco.

(Gibran)

I nostri figli sono come le frecce nell’arco e noi non siamo l’arciere, ma solo l’arco teso da una mano sconosciuta, che rimane saldo, aderente ad un grande progetto collettivo: un’umanità che cammina spedita verso il suo progressivo miglioramento.

Nonostante questi tempi ci appaiono bui, se con disincanto osserviamo il secolo appena trascorso, la barbarie che l’ha connotato è smisurata.
L’utopia di un mondo migliore oggi si fa strada attraverso i movimenti di giovani che colorano il nostro schermo, in bianco e nero, con i colori dell’arcobaleno e attraverso la sempre maggiore attenzione verso i diritti umani che, come dice Bobbio, sono entrati solo nella seconda metà del ‘900 nel decalogo dei nostri diritti.

È forse questa la meta a cui l’arciere tenta di inviare le frecce ?
E noi, siamo uno strumento flessibile e saldo nelle sua mani?
Educhiamo i nostri figli alla giustizia, al rispetto, o anche noi irridiamo dei buoni sentimenti perché il disincanto, sotto forma di nichilismo, ci ha congelato il cuore?
Abbiamo noi consapevolezza che siamo il primo volto dell’altro che nostro figlio vede?

Immaginiamo adesso di insegnare che l’altro di per sé è pericoloso, nemico, rivale, al massimo uno specchio del nostro Io. Come possiamo noi insegnare a questo cucciolo d’uomo che l’altro è il terreno sacro perché è ad immagine di Dio?
Solo se pensiamo che anche noi siamo ad immagine di Dio non arriveremo a svilirci in morbose rivalità e vana gloria, ed educando al rispetto per la sacralità dell’uomo, al cui cospetto l’Io deve rimpicciolire, deve arretrare, quasi scomparire, fare strada, forse così noi educheremo i nostri figli al rispetto di una paternità e maternità, che è il primo nucleo di progetto di una società giusta e solidale.
Comprendendo che solo nell’iscrizione di un tempo ampio, che si snoda attraverso passato presente e futuro, e non in un infinito presente, piatto, fine a se stesso, che noi genitori diventiamo storia per i nostri figli, cioè radice e appartenenza, e i figli, del resto, attraverso l’amore e l’onore reso ai genitori si approprieranno in maniera completa e armoniosa del loro passato e potranno permettersi la costruzione di un futuro.

Ancora una volta, spesso, purtroppo, il comandamento “onora il padre e la madre” trova tra i primi trasgressori proprio il padre e la madre.

E laddove genitori scellerati abbiano inferto profonde ferite ai loro figli, la domanda è: che fare? Possono essere rimarginate quelle ferite? E di chi è il compito di farlo? Possiamo rimanere a guardare, magari con l’orgoglio di confrontarli con i nostri, frutto della nostra bravura, passivi e giudicanti, o ci si può e ci si deve fare carico di una maternità e paternità allargata, che pur non essendo biologica, comunque ci appartiene come cittadini del mondo la cui bellezza dipende anche dalla nostra capacità di educare e di essere. Un giorno un mio amico mi ha detto: “Non perdere mai l’occasione di sentirti ed essere un educatore”.

Il Centro in cui vivo la mia storia, in questo momento ha circa 100 ragazzi portatori di ferite, non santi, non tutti belli e sani, un po’ se la sono anche andata a cercare, ma sono persone e possono cambiare, vogliono cambiare, e per questo chiedono aiuto, il nostro aiuto. Non per avere dei farmaci, né dei miracoli, ma un dono: un’amicizia liberante, che diventa a volte genitoriale, a volte fraterna, a volte amicale, ma sempre rispettosa, sempre e comunque solidale e appassionata. Non sono miti, non sono poveri di spirito, non sono misericordiosi, ma hanno desiderio e bisogno profondo di perdono e di giustizia. Questa è la mano tesa su cui innestare il primo nucleo educativo, per riaccompagnarli sulla strada dell’incontro, dell’onore, della dignità ritrovata.

Un’ultima storia: Franca, bambina venduta, sempre alla ricerca affannosa dell’amore materno, che per tre lunghi anni ha vissuto con noi dopo aver venduto il suo corpo agli uomini e all’eroina, ha risalito con fatica la strada impervia del proprio riscatto, ritrovando e perdonando se stessa e la madre, arrivando persino a comprenderla quando è divenuta lei stessa madre e ha iniziato a scrivere una storia altra, oggi, con il piccolo Marco.

Educare i nostri figli ad onorare il padre e la madre significa educarli ad onorare gli uomini e le donne, significa educarli ad onorare la storia, significa educarli ad onorare la loro futura paternità e maternità, significa iscriverli in un mondo che nonostante le difficoltà, la fatica, può essere reso “bello” dal nostro modo di starci, riprendendo l’esempio di Franca, significa, educarli ad onorare la vita e a viverla non fino in fondo, ma fino in cima. Con dignità.

(tratto da: http://www.progettouomo.net)