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Il precariato è costituzionale?

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La "Legge Trenta", conosciuta erroneamente come legge Biagi, è osservata come la madre di ogni male; in realtà non dobbiamo assolutamente dimenticare che (tale legge) è figlia del pacchetto Treu, a sua volta figlio della cultura neo-liberista. Proprio la cultura neo-liberista che pervade la classe degli industriali e imprenditori, diviene un valore di riferimento anche per classe politica e, cosa ancora più assurda, propende a mutare in un valore culturale individuale, trovando la sua espressione maggiore nel principio: “Ognuno può essere imprenditore di se stesso”.

Cerchiamo (qui) di ragionare per punti, anche se ogni punto si porta dietro una tesi politica, morale ed economica ben precisa (le parole sono volutamente messe in fila in questo modo).

I “padroni” hanno voluto maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, perché i vincoli normativi, fiscali e contrattuali, sono limitativi della libertà di mercato, e perché per creare maggiore profitto serve maggiore libertà di movimento.

Le forme di precariato, flessibilità e sfruttamento possono assume infatti diverse forme, ma ci soffermiamo su quella più radicale: il famigerato co.co.pro.
I Contratto a Progetto (co.co.pro) non è altro che la formalizzazione di un accordo, di diritto privato, fra due soggetti; diritto privato significa anche che una mancanza di CCNL (Contratti collettivi nazionali di lavoro). Non essendoci CCNL di riferimento, non si obbliga, l’accordo, a sottostare a nessuna forma di retribuzione minima e massima, a ferie, orario di lavoro minimo e massimo, permessi retribuiti, diritti sindacali e di rappresentanza, diritti di maternità , tutela della malattia , delle diverse disabilità, trattamento di fine rapporto (TFR), ecc.

Insomma, concretizzando: il padrone fa una proposta economica e di impegno lavorativo, e il lavoratore ha la piena libertà di accettare o meno, ma a dimostrazione dei fatti ci risulta che il coltello dalla parte del manico lo tiene sempre il padrone (!); non esistendo contrattazione collettiva di riferimento, la contrattazione delle condizioni di ogni singolo contratto a progetto sta nel gioco di forza fra padrone e lavoratore: un braccio di ferro tra posizioni squilibrate e non paritarie.

Questa formula contrattuale particolare era nata per favorire le alte, e specifiche, professionalità, difficilmente reperibili sul mercato, come ad esempio ingegneri informatici strutturali, tecnici e specialisti in campo progettuale-gestionale, manager e altro… peccato però che, modificata dalla sua formulazione originale, anche una donna delle pulizie può essere assunta con un co.co.pro: un contratto a progetto come libera professionista!

Navigando nel web, leggendo giornali vari, non è difficile trovare articolisti o professionisti che banalizzano, dicendo che la strategia contro questa forma di precariato (che a conti fatti ha generato un mercato dello sfruttamento a bassissimi costi legalmente accettati!) è “dire no”; fortunatamente, gli autori di questi interventi non sono soggetti alla difficoltà di trovare lavoro, alla difficoltà di pagare bollette, spesa e magari sopperire le esigenze famigliari... diversamente si vergognerebbero di tali affermazioni e capirebbero SUBITO come sia impossibile per una persona, in disagio economico, “dire no” a qualunque forma di lavoro e retribuzione!

Nel nostro ordinamento, dove l’articolo 36 della Costituzione Italiana, ancora oggi in vigore, recita “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”, una condizione di mercato nero regolarizzato, un commercio di merce lavorativa umana, a prezzi sempre più bassi (per l’enorme potere di acquisto dei padroni: ecco la disparità che accennavamo nel braccio di ferro), appare come INCOSTITUZIONALE e intollerabile.

Di fatto non è incostituzionale perché non stiamo parlando di lavoratori ma di un contratto di Diritto Privato tra liberi professionisti – in realtà parliamo di lavoratori, privi di partita Iva, infatti, a spiegazione delle “false partite Iva” basti spiegare che: un lavoratore autonomo detrae dalla partita Iva diversi fattori, un co.co.pro. non detenendo la partita Iva non detrae nulla, eppure (!) sono equiparati legislativamente. C’è anche da aggiungere, che alla resa dei conti, ogni Giudice del Lavoro che vaglia un Contratto a Progetto, vanta sentenze di equiparazione a lavoratori dipendenti subordinati; poiché un contratto a progetto per essere tale non può, tra le altre cose: essere pagato ad ore, avere variazioni unilaterali del compenso, avere vincoli di orario, dover ricevere ordini ed essere insomma subordinato (ecc). Tutte cose che invece accadono regolarmente: sotto la luce del sole dei cittadini e dei sorveglianti.

Questi tipo di contratto detiene, oltre ai bassissimi costi, non sindacabili, un altro grosso motivo di appetibilità per i datori di lavoro: la totale mancanza di vincoli e limiti rispetto l'interruzione del rapporto (LICENZIAMENTO!). Essendo infatti un contratto privato, il lavoratore, licenziabile in qualunque momento e per qualunque motivo, non ha diritto a nessuna forma di tutela sociale (esempio alla disoccupazione).

Questa, amici, non è semplice polemica politica, è la nuda e cruda realtà, in cui ognuno di noi può trovarsi costretto a muoversi da un giorno all’altro e a qualunque età (come lavoratore – a spregio del termine: somministratori di mano d'opera), come possono testimoniare le lavoratrici di un call-center locale, chiuso dalla sera alla mattina per ridurre dei costi dell’attività.

(Agostino Giovannini e Dusca Bonini*)

*sindacalista Cgil zona montana

5 COMMENTS

  1. Flessibilità: come
    Questo articolo è molto interessante perchè mette in luce alcune questioni fondamentali. Un conto è parlare di flessibilità, mentre altra conto è favorire il precariato sotto la bandiera della flessibilità.

    (s.r.)


  2. Sono d’accordo con r.s., ma con alcune precisazioni da libero cittadino. Mi sembra che qualche responsabilità l’abbiano anche i sindacati, che, fra i molti meriti avuti, in passato sono sempre rimasti rigidi sulla vera e necessaria flessibilità sia nel pubblico impiego che nel privato (e… mi fermo qui!). Debbo dire anche che personalmente non mi piace la parola “padrone” scritta alcune volte qua sopra anche se fra le virgolette, perché in molti casi il “padrone” è un lavoratore pure lui (certo non tutti) che spesso fa molte ore di lavoro in più rispetto ai propri dipendenti ed ha molte responsabilità da superare ed intrighi burocratici imposti dall’alto. Inoltre mi sembra che il cosiddetto “padrone” potrebbe essere anche la collettività (nel pubblico impiego).
    L’art. 37 della nostra Costituzione, scritta da persone molto lungimiranti, non precisa le grandezze (sarebbero stati troppo lungimiranti!), ma nonostante questo convengo che in molti casi come quelli descritti qua sopra è alquanto disattesa.
    Sicuramente dovrebbe essere rispettata di più in tutte le sue parti!

    (Un lavoratore autonomo)

  3. Bisogna parlarne
    Bellissimo articolo, interessante e dettagliato. Se l’argomento interessa a pochi (ma a noi giovani DEVE interessare, questo con tutta probabilità è il presente di molti di noi e, purtroppo, il futuro… ) continuiamo a parlarne, a scriverne, a informare in tutti i modi possibili. Facciamo sentire la nostra voce.
    Complimenti Agostino e Dusca.

    (Francesca D.)