Riceviamo e pubblichiamo la lettera che segue, che proviene da un'insegnante di un istituto della nostra montagna.
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Sono un’insegnante di lingua inglese di scuola secondaria di primo grado. Sono ancora abbastanza giovane, ho tanti anni ancora davanti a me, non prossima alla pensione, non stanca di insegnare; eppure ho una discreta esperienza che mi permette, senza presunzione alcuna, di conoscere le dinamiche scolastiche.
Quanto accade a proposito di bullismo, di disagio giovanile, di mancanza di attenzioni e accudimento (che non sia solo fisico) da parte delle famiglie nei confronti dei giovani tutti lo sappiamo, e la stampa, ahimè, non sempre tratta dei fatti in modo serio e profondo senza cadere nel tranello della strumentalizzazione gridata a voce alta e sbattuta in prima pagina.
Il momento che la scuola (e con questo non si parla di un’entità astratta ma di persone che ci lavorano, dove l’interazione e le relazioni personali costituiscono la sua essenza, assieme all’apprendimento) sta attraversando è delicato e molto pericoloso per gli effetti nefasti che potrebbero scaturire se non si fa una seria autocritica. Nei “vecchi” programmi della legge Moratti, la scuola ha il compito di stabilire con le famiglie un patto formativo, cioè decidere assieme parte dei programmi, le cosiddette ore opzionali.
Che la famiglia sia considerata importante e venga coinvolta per quello che riguarda le dinamiche relazionali e l'illustrazione della programmazione, così come dei risultati raggiunti dai ragazzi, è fondamentale e non è certo una novità di questi ultimi anni.
Quello che è cambiato, però, è molto più profondo e va a toccare l’autonomia vera, non amministrativa, della scuola, il suo essere un punto di riferimento sociale, il suo avere una dignità che non si contratta come al mercato solo per attrarre, come la migliore vetrina, il maggior numero di studenti.
NO! Io mi rifiuto di credere a questo, voglio ancora pensare che una famiglia, iscrivendo i propri figli ad una scuola piuttosto che ad un altra, sia mossa da motivazioni diverse, non solo perché in quella scuola c’è il corso di pittura o di ginnastica o di trekking.
Pensiamo al fatto che ci sono docenti seri che credono nell’importanza di insegnare, perché si tratta di questo, contenuti, abilità che possano aiutare i ragazzi a crearsi una curiosità intellettuale, partendo dalle proprie potenzialità, valorizzando e contribuendo a maturare un senso critico nei confronti delle discipline e della vita stessa.
Ricordiamo a noi stessi però che il compito di un insegnante è insegnare e non sviliamo la sua figura a mero burattino che deve adeguarsi alle richieste del miglior offerente.
Sapete perché si parla tanto di una sempre più crescente mancanza di conoscenze da parte dei ragazzi (io parlerei piuttosto di conoscenze sempre più superficiali)? Si propongono mille attività e da qualche parte si dovranno attingere le ore…. non essendo aumentato l’orario scolastico.
Ed ecco che italiano ha meno ore, così come matematica, inglese ecc ecc... (sì, anche inglese, perché da tre settimanali la legge Moratti ci aveva fatto andare a due: diciamole, le cose, non crediamo alle cavolate che ci raccontano, studiamo, informiamoci, andiamoci a fondo... ). Altro problema: la depressione scolastica, gli abbandoni al primo anno di superiori di II grado, le promozioni facili, le sufficienze politiche, il chiudere sempre gli occhi davanti ai problemi, l’autoreferenzialità.
Certo, nella scuola, almeno nella mia, si vive anche questo. Le famiglie non collaborano solo, e forse in alcuni casi non più, ma si insinuano nelle dinamiche scolastiche anche a livello curricolare e sempre più spesso accade che persone che di mestiere fanno tutt’altro si permettono di dare consigli, di suggerire; quando non accade di criticare le scelte didattiche e curricolari dei docenti.
Non entro poi in merito alle dinamiche sociologiche che, come è naturale che sia, si riflettono nella scuola. A noi docenti è richiesta la laurea in psicologia e non solo, siamo assistenti sociali, medici, amici.
Strano come da un lato siamo attaccati e dall’altro, se certe situazioni sfuggono, siamo noi coloro che devono capire e risolvere. Capire sì, risolvere è presunzione. Possiamo essere fari solo se non perdiamo la nostra identità, se stiamo al nostro posto accettando e rispettando sempre i ragazzi ma essendo anche incorruttibili, non scendendo a patti svilenti.
Possiamo accettare che in situazioni difficili e svantaggiose non ci possano essere motivazioni, ma da qui a dire che tutto è consentito, che la sufficienza si deve attribuire a tutti, che bocciare non serve mai a niente, di acqua ne passa.
I termini corretti di discussione sarebbero mettere da parte per un momento la valutazione, senza nasconderci però in dietrologie assurde e fiaccanti, e pensare in termini più costruttivi a ciò che si può fare per questi ragazzi. Non è dare il sei politico che si risolve il problema. E’ piuttosto monitorare un percorso, dare punti di riferimento, dare fiducia e garanzie di appoggio e programmare personalizzando.
E’ dare risorse alla scuola, non progettazioni disparate, anche se piacevoli. E’ inserire nel fondo incentivante un capitolo per recupero e potenziamento in cui la scuola possa contattare esterni o personale in servizio che presti extra orario, per permettere ad un insegnante che ha 25 o 30 ragazzi di seguirli come si deve.
Non ammettere un insuccesso è grave, essere autoreferenziali è grave, nascondersi dietro a demagogie alla fine avvilisce, ma ancora più grave è avere paura nel nostro mestiere...
Paura delle critiche, delle denuncie, dell’arroganza e/o aggressività di certe famiglie. Se sappiamo di lavorare nel giusto non dobbiamo abbassarci a certi compromessi di davvero bassa bassa lega.
(Lettera firmata)
Nessun genitore, credo, penserebbe di chiedere al medico di rendere più positive le analisi cliniche del proprio figlio; mentre capita che genitori chiedano, anche con insistenza, di valutare più positivamente di quanto oggettivamente non si possa le verifiche periodiche dei figli, che sono poi le analisi cliniche scolastiche. Quindi non solo ingerenza nella didattica, ma anche nella valutazione. Le ragioni? Principalmente, sempre a mio avviso, non tanto l’apertura istituzionale alla componente, così è denominata, dei genitori, quanto, e soprattutto, la perdita d’aureola del “mestiere” di docenti. Sul loro operato, ciascuno, indipendentemente dall’attività che svolge e dalle conoscenze in ambito educativo e formativo, si sente autorizzato ad esprime giudizi, soprattutto negativi, ammaestrato dai mass media nazionali. Anche i governi che si sono succeduti, nei loro interventi legislativi diretti alla scuola, non hanno tenuto conto della realtà oggettiva e, quindi, delle esigenze dei nostri ragazzi, ma hanno cercato di realizzare loro progetti, mutuati da altri contesti, prescindendo, appunto, dalla nostra società. E intanto la scuola arranca sempre di più, per tenersi al passo con le necessità dei nostri ragazzi sempre più fragili, frastornati da una quantità di informazioni che restano in superficie, in difficoltà crescenti a riflettere e ad approfondire. Sicuramente l’introduzione dell’opzionalità nel percorso scolastico ha danneggiato il lavoro dei docenti e degli studenti; mi chiedo perchè non si sia innestata la retromarcia, considerati i riscontri negativi o, perchè gli sstituti scolastici, che godono di autonomia, non abbiano avuto il coraggio di scegliere l’orario che didatticamente risultava essere il più idoneo. Le classi sono sempre più eterogenee; emergono bisogni profondamente diversi fra i ragazzi; la scuola avrebbe bisogno di docenti con un numero maggiore di ore a disposizione da usare con flessibilità. Se i docenti avessero un orario di lavoro come tutti gli altri lavoratori dovrebbero restare tutta la giornata a scuola, dove svolgere le attività che solitamente vengono espletate a casa, ma anche le alfabetizzazioni, ormai necessarie in tutto il corso dell’anno scolastico, i recuperi immediati, i potenziamenti, senza dover attendere la disponibilità dei miserrimi denari del fondo dell’istituzione scolastica. Per quanto concerne le attività dei laboratori che introducono attività teoriche-pratiche, io credo che siano utili in quanto permettono ai ragazzi di sperimentarsi e misurarsi in abilità, quelle manuali, ormai inesplorate, contribuendo a potenziare la capacità di orientamento. Fondamentale resta la condivisione del progetto educativo con la famiglia, senza il patto fra docenti e genitori la formazione e l’istruzione resteranno monche. Invece, il più delle volte, la collaborazione non esiste, spesso si manifesta la considerazione della scuola come controparte con cui misurarsi. L’istituzione scuola, in generale, mi appare come un ammalato grave, dove chi lavora e chi lavora poco viene messo sullo stesso piano; spesso il furbetto e il fannullone godono d’immunità se non addirittura di considerazione dettati dall’atteggiamento ipocrita che rende più facile pretendere sempre più dagli sgobboni, dai responsabili, dagli idealisti, che “rompersi” le scatole mettendosi in urto con chi pervicacemnte vuole “fare i suoi” sapendo di poterli fare. Anche l’aspetto economico contribuisce, nella nostra società dell’apparire e dell’avere, ad attribuire, nella scala sociale, un certo gradino ai lavoratori della scuola che comporta un giudizio di rispettabilità e di considerazione adeguate. Nonostante ciò, sono molti i lavoratori della scuola seri, impegnati, amanti del loro lavoro che potrebbero avere semine più feconde se le diverse componenti della società avessero chiaro che cosa si vuole ottenere dai nostri giovani che sono poi il futuro di tutti.
Ho insegnato lettere nella scuola media per quarant’anni ed ho amato il mio lavoro, che considero sia uno dei più gratificanti che un essere umano possa svolgere, perchè si trascorre la propria vita con i ragazzi.
(c.m.)