La globalizzazione, abbastanza banalmente, è quel complesso di fenomeni economici e culturali dallo straordinario potere di avvicinare, sovrapporre, miscelare, fondere spazi e tempi che, nell’immaginario collettivo, rimangono tradizionalmente ancora abbastanza estranei l’un l’altro. Tale processo – anche se poco o nulla condiviso – contraddistingue e segna ormai ogni singolo momento delle nostre esistenze civili di cittadini, di lavoratori e di consumatori. Ciascuno di noi, tornando a casa dal posto di lavoro, in cui, probabilmente, si risente dell’agguerrita concorrenza di competitori stranieri, mentre guida un’auto coreana alimentata con carburante mediorientale ed ascolta alla radio l’ultimo successo di un gruppo inglese, annega le proprie frustrazioni nell’attesa della partita di Champions League, magari gratificando i propri appetiti con sfizioso cibo cinese e con spumeggiante birra tedesca. E comodi scarponcini canadesi a proteggere dal freddo di stagione.
Di fronte a tutto questo internazionalismo involontario, che si configura sempre più come messa in discussione degli assetti economici, culturali e quindi esistenziali del cittadino medio, l’emozione indotta può, alternativamente, essere di fascino o più frequentemente di smarrimento. La domanda, a questo punto, è tanto retorica quanto ineludibile: come si coniugano istanze globali ad azioni locali? Come e quanto questo processo riguarda ed influenza l’agire, il muoversi e soprattutto il pensare del montanaro? Quale abito culturale veste ed investe le coscienze di chi, abituato a crescere tra facce note, con ritmi di vita naturali ed in un contesto microeconomico quasi autosufficiente, è fagocitato improvvisamente da sollecitazioni – soprattutto massmediatiche – che muovono su scala globale?
La mia opinione è che il sentimento prevalente sia quello di una paura diffusa ed autentica, di uno smarrimento che turba più o meno marcatamente quelle certezze incrollabili sedimentate in decenni di ripetitività contadina più o meno conscia. Sentimento del tutto ingiustificato, certo, che anzi è pulsione premonitrice per lo più di chiusura conservatrice anziché di valutazione critica sul mondo circostante. Ma questo perché si teme soprattutto ciò che non si conosce. Certo è che tali considerazioni, per quanto opinabili, non sono indubbiamente una peculiarità culturale del nostro Appennino. Anzi.
Quella che risulta essere una prerogativa tuttaa nostra è però – di fronte allo smarrimento che si prova in un presente fatto sempre più di ritmi insostenibili, di bisogni superflui indotti e di precarietà – il rifugiarsi in un passato astratto ed immaginario e quasi mitizzato, in cui placare agiatamente l’angoscia di fronte allo smarrimento indotto da quell’insieme di atteggiamenti che vengono definiti come vita moderna.
Max Weber, nella sua classica catalogazione dei tipi fondamentali di agire sociale – elaborata in quello che è un vero e proprio manuale della sociologia del novecento Economia e società – definiva quelle che rimangono le categorie ideali che spingono all’azione ciascuno di noi: agire razionale rispetto allo scopo, agire razionale rispetto ad un valore, agire affettivo e agire tradizionale. Se gli ultimi due tratteggiano forme di atteggiamento non razionale, i primi due sono forme di razionalità contrapposte. Non so quanto alcuni degli amministratori locali ricordino tale classificazione, ma poco importa; certo è che alcuni di loro, in particolare i luminari in fatto di turismo e cultura della Comunità Montana, attuano solo ed esclusivamente politiche improntate all’agire tradizionale.
Nel fitto calendario delle iniziative culturali del nostro Appennino, troviamo infatti da un po’ di anni una sequela interminabile di feste del raccolto, feste della mungitura, feste della polenta, della castagna e del fungo, del tortello casereccio, del tartufo e finanche della mietitura; siamo subissati di presentazioni di libri o inviti di noti scrittori – che avvengono con celebrazioni degne di best sellers (di recente siamo stati angariati dal moralismo della Zanicchi o dagli appelli ultraconservatori del peraltro ottimo Maggiani) – che hanno come oggetto monotematico quello dell’ossessiva celebrazione del mondo contadino che si trasforma in una vera e propria rievocazione mitica e gloriosa. Avviene così che un passato in cui povertà e miseria si confondevano, sia rimosso e reinterpretato in chiave ideale e leggendaria, quasi ad assurgere ad una epica e gloriosa civiltà millenaria in cui la nostro piccola e provinciale montagna affonderebbe presunte ma ostentate radici mitiche, meravigliose ed incantevoli. Qualche anno or sono era la cultura celtica ad aleggiare sui nostri formidabili destini; ora pare essere la volta della riscoperta allegorica del mondo contadino, con i suoi ritmi slow (tanto da fregiare il capoluogo Castelnovo di un esclusivissimo marchio) e la sua bonaria e carnevalesca vivacità!
Avviene, in definitiva, che una tradizione fatta di fatiche insostenibili, di fame ed indigenza, di malattie che proliferavano in ambienti angusti e malsani, di un elevatissimo grado di mortalità infantile, di lavoro minorile, di analfabetismo, di sperequazioni economiche intollerabili (basti ricordare il sistema della mezzadria, con cui molto agricoltori venivano abbondantemente e sistematicamente espropriati di una cospicua parte dei loro ricavi, vero e proprio retaggio feudale con cui hanno dovuto fare i conto diverse famiglie soprattutto del crinale), della clausura più completa del mondo femminile, dell’assenza di condivisione e partecipazione alle decisioni collettive, di un’illegalità (non criminalità, si badi bene) tanto diffusa da ricordare più lo stato di natura di Hobbes piuttosto che uno straccio di Stato di diritto… diventi nella mente contorta (ma interessata) di qualcuno tanto uno strumento di celebrazione quanto di autocelebrazione. Dove la natura, millenaria antagonista dell’uomo contadino nelle ineludibili leggi della sopravvivenza della specie, è raffigurata come accogliente territorio confortevole e gioioso. Dove la fauna, acerrima rivale nell’approvvigionamento degli scarsi frutti della terra, è vista disneyanamente come innocente e fanciullesca compagna. Ma provate, tanto per fare un esempio, ad illustrare il Progetto Lupo sostenuto dall’Ente Parco ad un qualsiasi pastore ancora in vita; oppure provate, se avete la fortuna di averli ancora, a decantare ai vostri nonni strenue apologie del buon vivere campestre e bucolico dei bei tempi andati. Provate, infine, a spiegargli che la finalità del Parco Nazionale è quello di preservare incontaminata la natura. Dolcezza, serenità pastorale, virtù e fierezza contadina, solidarietà agreste e semplicità pacifica campagnola: a sentire certe arringhe, peraltro da pulpiti istituzionali, si assiste ad un vero e proprio fraintendimento della realtà. E questo avviene dimenticando che per millenni economia ed ecologia non sono stati coniugabili; perché, laddove emergevano scarsità di risorse e penuria di tecnologie, laddove aumentava l’invasività dell’uomo sulla natura, aumentavano le opportunità di sussistenza. E ciò in un rapporto di proporzionalità diretta: più si dissodava il terreno, più raccolto si aveva. Più si disboscava, più ci si scaldava. Non è un caso, infatti, che la responsabilità dell’uomo verso il pianeta nasceva laddove l’equilibrio descritto risultava incrinato non eticamente, bensì quantitativamente sul lungo termine. Ed allora si tutelava il raccolto o il patrimonio boschivo dell’oggi, per non precluderselo domani.
Oggi, all’opposto, pensiamo che, alla luce dei nefasti effetti della modernità capitalista, siamo moralmente legittimati a rimpiangere il passato preindustriale che, nei nostri comuni, dista nel tempo solo qualche decennio. Sentendoci giustificati ad una celebrazione acritica ed irrazionale della tradizione, appunto per tornare a Max Weber.
Qualche anno prima di Weber un altro sociologo, tale Karl Marx, parlava di realtà ed ideologia come due concetti antitetici ma funzione uno dell’altro. Insomma come due facce di una stessa medaglia. Se da un lato vi è una realtà, più o meno oggettivamente definibile ma comunque costruita da situazioni materiali misurabili e raffrontabili analiticamente, sul piano opposto si trova l’ideologia: non la realtà, bensì una rappresentazione strumentale che prende le mosse da essa fino a snaturarla e mascherarla col fine di negarla a fini politici, una sorta di fotografia del mondo in cui i toni cromatici e le sfumature si confondono fino ad essere irrimediabilmente alterate.
La riscoperta del passato, in buona sostanza, è giustificabile e legittima. Anzi, un’attenta ricostruzione del vivere in Appennino lungo i secoli sarebbe tanto curiosa quanto doverosa. Quello che risulta odioso ed intollerabile, invece, è la strumentalizzazione della memoria. E’ il suo svilimento. E’ la sua traduzione in un’anteriorità mitica, magica ed irreale. Basta bazzicare in rete e vedere un noto sito istituzionale, dove si legge emblematicamente:
“Il fascino dei nostri luoghi è dato da una combinazione di elementi destinati a stupire: l’ambiente e la ricchezza della natura, i segni della storia e le tradizioni del mondo contadino, che influenzano ancora il ritmo di questi luoghi incantati permeandoli di una magica quiete. Una terra in cui gli uomini e le donne hanno lavorato per salvaguardare uno dei punti più belli dell’Appennino settentrionale e per far sì che esso resti incontaminato così come lo vedete ora. Proprio per tutelare questi incantevoli paesaggi naturalistici di fascia appenninica, è stato costituito il Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano”.
Il punto, di fronte allo scorrere inesorabile del progresso (vero o presunto), non è se accettarlo o rifiutarlo; non solo, un dibattito di questo tipo risulterebbe superfluo; porterebbe, con buona pace di questo movimento neo-luddista montanaro, a smascherare contraddizioni assai lampanti. Quanto degli assessori dalle tendenze tradizionaliste e nostalgiche hanno piantato una zappa nel terriccio riarso di un campo sotto l’insostenibile sole di luglio? Quanti profeti della polenta di castagne se ne sono nutriti per almeno una settimana di fila? Quanti dei finanziatori di guide escursionistiche lamentano parcheggi troppo lontani dai loro comodi uffici? E’ troppo semplice, insomma, glorificare i bei tempi andati fino a ricavarne un comodo abito mentale in grado di raccogliere le frustrazioni della vita moderna. Ben più arduo, per quanto intellettualmente più onesto e politicamente più costruttivo, cercare di incanalare il corso della storia verso un’economia maggiormente coniugata all’ecologia; e verso una cultura che, proprio perché elabora modelli alternativi di modernità, non sia costretta a rifugiarsi in un arcaico e utopistico passato. Certo questo compito non deve e non può ricadere unicamente su noi amministratori pubblici dell’Appennino. Ma siamo comunque chiamati a dare un segnale di razionalità e lungimiranza, che sappia, almeno, astrarsi dalla celebrazione in pompa magna della polenta di castagne, che, per quanto equilibrata dal punto di vista nutrizionale, stanca rapidamente gli appetiti intellettuali di una generazione illuministicamente globale.
(Marco Costa, assessore all’ambiente del Comune di Busana per il Prc)
Eh, si, piano con la nostalgia…!
Beh, devo dire che fa piacere leggere, ogni tanto, un’opinione ponderata, incisiva e a tratti pungente; ancor di più se viene da un pubblico amministratore, verso la cui categoria, lo ammetto, nutro la più scarsa considerazione. Il sign. Costa ha ragione su molti punti ma su altri manca leggermente l’obbiettivo. Forse non era neppure necessario scomodare Max Weber per parlare di un problema, come quello turistico, che potrebbe essere in buona parte risolto semplicemente usando il buon senso. Mi ha strappato un sorriso, il sign. Costa, quando si chiede quanti degli amministratori che si fanno vanto della tradizione, abbiano mai affondato una zappa nella terra…
Ciò su cui credo che il sign. Costa sbagli, è nel dire che le varie festicciole non corrispondano a ciò che il turista vuole. In realtà, queste festicciole rispondono proprio ad un’esigenza turistica così come i programmi televisivi trash vengono fatti perchè vi è un pubblico che li segue. Il problema è un altro: e cioè bisogna chiedersi se il turismo non debba già semplicemente assecondare le masse e i bisogni ma anche crearne di nuovi e, possibilmente, indirizzare il turista verso una forma di turismo più maturo e consapevole, nonché ecologicamente sostenibile. Quelle festicciole di cui parla non strizzano affatto l’occhio ad un passato fatto di povertà, poichè il passato che ripropongono è reale quanto può essere reale un set cinematografico o la casa del grande fratello… Questo tipo di turismo vive su un reciproco inganno: da un lato (specie nelle feste in costume, che sono delle perle da questo punto di vista) la rievocazione di passati mestieri, passate tradizioni culinarie, sorrisi paciosi di contadini in costume per un giorno, dall’altro la propensione del turista a farsi ingannare e a credere che questi quadretti abbiano ancora un’appendice nella realtà.
Ed è proprio qui che sta la cosa grave: nel fatto che queste feste non richiamano praticamente nessun vissuto! Esse sono quasi pura finzione al punto tale che, mentre si magnificano i tortellini e il castagnaccio, vien da chiedersi quante massaie, nella vita reale, li sappiano ancora fare. Da questo punto di vista, lo stesso Parco nazionale, si configura come una vetrina posticcia, un set artefatto dove i turisti siano disposti a farsi ingannare. Tuttavia, così come nessun amministratore è disposto a nutrirsi di polenta di castagne, posso assicurare che nemmeno alcun turista lo è; ed è anche da qui che sorge il problema di un turismo “mordi e fuggi” che è aggravato da un’economia nazionale non proprio florida ma che è, sul nostro territorio, la diretta conseguenza del fatto che una volta assistita all’amena festicciola e una volta trangugiata la fetta di porchetta, una volta che si è fatta l’escursioncina per tenersi in allenamento, non esiste alcuna alternativa o stimolo a prolungare un soggiorno.
Ciò su cui il sign. Costa ha ragione è nel dire che la rievocazione in chiave mitica di antichi mestieri lascia il tempo che trova, ma sbaglia asserendo che la tradizione contadina non porti con sé, insieme alla miseria, anche una grande cultura forgiata proprio da quella convivenza tra natura ostile e necessità di viverci che nel corso dei secoli ha maturato soluzioni estremamente efficaci. Basti pensare alla tradizione architettonica che viene vieppiù ripresa anche da grandi architetti: la bio-architettura; basti pensare ai medicamenti naturali, etc…
La cosa grave è che gli antichi mestieri siano, sic et simpliciter, praticamente scomparsi dal Parco senza avere la possibilità di rinnovarsi e riadattarsi alle esigenze della modernità come si sta cercando (e con successo) di fare altrove. La “natura incontaminata” è una sciocchezza che alberga solo nella mente di amministratori che non sanno quello che dicono. La natura nel nostro territorio si è sviluppata in concomitanza con la presenza umana che ne ha smussato gli spigoli e ne ha disegnato le fattezze. Fanno tenerezza coloro che si scandalizzano per l’abbattimento selettivo della fauna selvatica non comprendendo affatto cosa si intenda per equilibrio naturale. Fanno tenerezza quelli che mettono laccioli incomprensibili a coloro che ancora vorrebbero sfruttare il legname (con le dovute regole s’intende) e vorrebbero trasformare il Parco in una selva solcata da sentieri. Nel corso dei secoli persone ben più illuminate di quelle attuali hanno piantumato, selezionato e sfruttato il patrimonio boschivo dell’Abetina Reale lasciandoci in eredità una bellezza naturalistica di grandissimo pregio, esempio mirabile di quello che dovrebbe essere il raggiunto equilibrio tra sfruttamento del territorio e mantenimento delle risorse. Cosa ci lasceranno in eredità gli amministratori attuali…?
Ed infine, quanto alle mirabolanti frasi che possono essere contenute su certi siti e su certi opuscoli, ritengo che, occupandomi di pubblicità, esse facciano parte del “gioco”. Vendere significa anche fornire una versione un po’ edulcorata e migliorativa di un prodotto, è nell’ordine delle cose. MA la pubblicità vive anche su un equilibrio sottile tra una scrittura che deve mettere in luce le bellezze di un paesaggio e la necessità di non trasformarsi in una pubblicità ingannevole. Qualcuno, in questo senso, sembra essersi fatto prendere la mano più di una volta. Vendere bisogna vendere, ma le bugie hanno le gambe corte e vendere l’inesistente può portare qualche turista per un week end ma sul lungo periodo è il passaparola che conta e se un turista rimarrà soddisfatto allora sarà pronto a ritornare e consigliare altri a venire, in caso contrario una zappa affonderà si…ma sui piedi degli amministratori e del territorio…
(R.S.)
Cari Marco Costa e R.S., grazie per l’interessante e civile confronto. E’ bello leggervi, anche da molto lontano, per ritrovare il senso ed il gusto della discussione schietta. R.S. si chiede sul finale cosa ci lasceranno gli attuali amministratori. Io, quando rientro, sto facendomi una idea:
– tanti debiti pubblici a nostro carico;
– tanta ricchezza personale a proprio favore;
– tanta insicurezza ai galantuomini;
– tanta impunità ai delinquenti;
individuo queste quattro direttrici principali, che leggo dai giornali “accomunare” ormai larga parte degli italiani.
Anche le scelte strategiche sul territorio paiono asseverate a convenienze personali. Non avevo mai visto sviluppare in poco tempo tali capacità di intuito immobiliare e così violente pulsioni di attaccamento al “capitale” da parte di persone che ricordavo in eskimo a urlare agli altri ideali proletari. Ma vuoi tu che ogni “ruderino” dimenticato nel greto del fiume o sui grippi della Pietra quanto la povera casetta bloccata da ferree norme urbanistiche possono avere una seconda vita di grande valore e successo se capita in mano all’amministratore giusto? Questo percepisco quando rientro e mi viene da pensare che, così occupati al “monopoli” locale, non abbiano proprio orizzonte, tempo ed energie per “pensare alto”. Forse l’età mi ottenebra la mente; in questo bello spazio di discussione ditemi che è solo una visione deformata, mi piacerebbe sbagliare!
(D.F.)