Home Cronaca Ma è sicura la carne di capriolo nei menù?

Ma è sicura la carne di capriolo nei menù?

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Ma da dove proviene la carne al capriolo che mangiamo nei ristoranti della montagna e dintorni o che troviamo nel freezer dell’amico che ci invita a cena? E’ un alimento sicuro, pur di fronte ai ripetuti allarmi sui quotidiani di questi giorni? Per stare tranquilli, ai sensi di legge, questa carne dovrebbe provenire da un apposito impianto autorizzato ai sensi del Dpr 607 del 17 ottobre 1996 e, quindi, essere sottoposta al controllo sanitario. Ma di questi impianti, in Appennino, non v’è traccia.

Lo lamenta in un documento il gruppo consiliare d’opposizione in Comunità Montana che, con le firme di Riccardo Bigoi, Paolo Bolognesi, Marino Friggeri, Giuseppe Moncignoli e Davide Morani, segnala in proposito tutte le interpellanze ad oggi presentate. “Già da tempo abbiamo sottoposto alla presidenza – scrivono i consiglieri - il tema degli impianti destinati alla produzione e commercializzazione della selvaggina abbattuta a caccia (di cui al D.P.R. n. 607/96)”.

In una prima interpellanza del 2005, seguita da una nell’anno successivo, già ci si chiedeva come incentivare sul piano economico l’attività proprio di produzione e commercializzazione della selvaggina. E ad agosto del 2006 la prima idea, della minoranza, di disporre di un impianto a norma per valorizzare “le carni che ne uscirebbero provviste di bollo sanitario”.

Quindi pranzi e cene tranquilli, anche a base di stufato o spezzatino di capriolo.
Ok a una “macellazione controllata” si espresse il Consiglio a settembre dello scorso anno. Ma nel concreto vennero a mancare le risorse per finanziare, in territorio di Carpiteti, l’unica domanda di una ditta che avrebbe voluto installare un simile impianto.

Ora i crescenti allarmi sui quotidiani: “con l’aumentata mortalità tra i caprioli, il rinvenimento di soggetti sottopeso, le preoccupazioni che il fenomeno sta comprensibilmente ingenerando e un piano di monitoraggio sanitario sui caprioli coordinato dalla Amministrazione provinciale”.

“Negli impianti di cui caldeggiamo, oggi come ieri, l’installazione – spiegano i consiglieri – i capi di selvaggina abbattuta sarebbero obbligatoriamente sottoposti al controllo veterinario (per ottenere la bollatura sanitaria): questo sarebbe anche uno strumento di monitoraggio riguardo la salute delle specie selvatiche che vi confluiscono come animali abbattuti”.

L’utilizzo di queste impianti, ad oggi, rimarrebbe comunque del tutto facoltativo per il cacciatore che, però, ne avrebbe risultati positivi. Infatti, con il bollo sanitario potrebbe addirittura vendere la carne degli animali abbattuti. Quanti capi può cedere un cacciatore all’utenza privata?

“L’autorità regionale ha il compito di fissare il numero dei pochi capi interi di selvaggina uccisa a caccia cedibili dal cacciatore al consumatore o al dettagliante- spiega la minoranza -. Per questo chiediamo alla presidente della Comunità Montana se la Regione ha già fissato questo numero: in questo caso, di riflesso, i capi eccedenti il tetto fissato, per poter essere ceduti al consumatore o al dettagliante. Ma per farlo dovrebbero passare attraverso gli impianti abilitati alla lavorazione della selvaggina e si renderebbe quindi oltremodo opportuna, per non dire necessaria, la loro presenza nella zona montana”.

La stoccata: “Se sul nostro territorio si fosse già arrivati a poter usufruire di una o più strutture del genere, oggi conosceremmo già lo stato sanitario dei caprioli, e si potrebbe quindi essere in grado di dare una qualche risposta agli interrogativi che da più parti si vanno ponendo”.

(Studio Arlotti Notizie)