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Il senso di colpa: una dinamica sottovalutata e un meccanismo pericoloso

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I sensi di colpa ti si avvitano addosso con una forza indescrivibile, fino ad entrarti nelle carni e crescendo con esse.. Fino a fare parte di te..
Ogni stimolo può aumentare la frustrazione e a sua volta alimentare il desiderio di darsi colpe, di autocommiserazione..
Ed ecco ci si ritrova più incasinati di prima, per volontà nostra, in mezzo ad una sofferenza fisica, la nostra volontà è sedata da queste angosce che riconosciamo come consuetudini..
Ci accompagnano nella crescita.. in una crescita..

(l’autore desidera rimanere anonimo)

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La colpa possiamo definirla come una sensazione che trae origine dalla percezione di discostarsi dall'insieme di regole, codici comportamentali e norme sociali, imposteci dall'esterno sin dalla prima infanzia.
Il sentimento di colpa fa parte del gruppo delle emozioni secondarie, ossia quelle emozioni non innate (come sono ad esempio la rabbia, la tristezza o la gioia) e non universali, emozioni indotte dal contesto sociale in cui l’individuo vive e da cui subisce le influenze e la pressione alla conformità. Il termine “sentimento” descrive adeguatamente questo concetto, poiché non è puramente una sensazione proveniente dal sistema sensoriale ma permette (invece) una riflessione sull’emozione provata, emozione che deriva appunto da un integrazione interiore tra aspetti individuali e sociali (Benso, 2004).

Il sentirsi in colpa, è (o dovrebbe essere) una naturale reazione ad una situazione nella quale si è fatto o non si è fatto qualcosa, ed il cui effetto è stato negativo per sé e/o per gli altri: X ha portato alla conseguenza Y (non desiderata). Tale sentimento trae in ogni caso origine dal nostro interno, dal nostro auto-giudizio, e va a ridefinire (ogni volta) la percezione che abbiamo di noi stessi ed il nostro concetto di persona.

PERSONALITÀ E SENSO DI COLPA

Tutti ci sentiamo solitamente parte di un gruppo di riferimento (dal più piccolo, come il nucleo familiare, a gruppi più estesi, come le etnie), il quale contribuisce alla costruzione del concetto di identità personale attraverso la condivisione di norme e valori. E proprio in questo contesto, secondo Freud, nascono i sensi di colpa. Per la psicanalisi infatti, il sentimento di colpa è scaturito dal nostro Super-Io, o giudice interiore, che ci rammenta continuamente i nostri doveri, le nostre responsabilità e ci provoca una sensazione di rimorso quando i nostri comportamenti si discostano dalla regola. Il fine è quello di mantenere un ordine sociale pre-costituito il potere e l’obbedienza all’autorità.

Ma non tutti i sistemi culturali fanno perno sui sensi di colpa per mantenere l’ordine sociale all’interno di un gruppo. Le visioni buddiste ad esempio, dove lo schema mentale disfunzionale è concepito come un insieme di emozioni distruttive di cui il soggetto deve liberarsi per mirare alla perfezione (Goleman, 2003), presuppongono che l’individuo raggiunga se stesso tramite vari stadi, tra cui, prevale quello del riconoscersi per come è realmente, e non per come vorrebbe essere o come Non è – le visioni buddiste, vedono nella “ consapevolezza di Se stessi” il primo passo verso il risveglio e il comprendere realmente ciò che si è (Fromm, 1960).

L’accettazione di se stessi e dei propri comportamenti agiti nel reale si definisce, invece, assunzione di responsabilità (quasi una antitesi dei connotati della colpa odierna); presuppone che l’individuo si veda, si concepisca e si accetti consapevolmente così come è, nei suoi pregi e soprattutto nei suoi limiti, senza lasciarsene deprimere o paralizzare ma anzi prendendone atto e adoperandosi per trovare soluzioni e compiere scelte per modificare l’esistente.

Ma il guardarsi per come si è realmente comporta una sofferenza del nostro narcisismo, una riduzione del nostro Super-Io, dove vorremmo vederci diversamente da come siamo e non comprendere i nostri (reali) difetti. Il Super-Io ammette una esaltazione delle proprie possibilità: un percepirsi in grado di possibilità tanto smisurate quanto non reali. Secondo Adler questa negativa sensazione di superiorità induce l’individuo ad isolarsi dalla comunità e a non intrattenere positive ed utili relazioni sociali; a questo proposito sostiene che per destrutturare questo sentimento di onnipotenza, ogni individuo dovrebbe promuovere in sé i cosiddetti “compiti vitali” (amore, amicizia, lavoro) creandosi un nuovo stile di vita (Adler, 1931).
Ma anche ridimensionato, il narcisismo umano e il Super-Io freudiano paiono come la credenza dell’uomo di avere, su se stesso, un potere illimitato: un potere che non ammette (però) una fluida concezione della scelta e della compartecipazione alle cause. Si tratta, quasi, di un delirio di onnipotenza dove la persona possiede (o ritiene di possedere) capacità enormi, ma in potenziale “non utilizzato”. Sia la visione buddista (che riconosce la presenza di una perfezione, la Buddità, raggiungibile da ogni essere senziente) che la psicologia umanista (autori come Rogers riconoscono che l’uomo ha, dentro se, tutte le risorse necessarie per cambiare e avrebbe anche una spontanea tendenza ad autorealizzarsi) vedono nell’uomo un grande potenziale di cambiamento, ma anche una energia che viene poco adoperata per cambiare realmente. È in questo che la “fluidità” del concetto di colpa e di capacità dell’uomo non è fluido, ma diviene una maschera per gli intenti di passività e staticità.

Ad oggi sappiamo che la nostra personalità (psicologicamente intesa) è il risultato di più cause e fattori: biologiche, sociali e psicologiche. Un quadro dove dobbiamo riconoscerci limitati, e ammettere che siamo quel che siamo (anche) non per nostra colpa. “Saper tollerare tutto ciò che si può trovare nella propria realtà interna è una delle grandi difficoltà umane” (Winnicott, 1986).

Ma anche qui, il concetto è spesso male interpretato.
Sempre, la concezione buddista del cammino verso se stessi presuppone, come stadio fondamentale, dopo la compassionevole accettazione di se stessi (la presa di consapevolezza di come siamo in ogni aspetto), l’inizio degli stadi atti a migliorarci – per cui da un presupposto di presa di consapevolezza delle reali essenze di noi stessi, si accede a stadi che richiedono la messa in atto del potenziale umano e delle risorse necessarie al cambiamento.
Una sintesi, con parole semplici, potrebbe essere: l’uomo non può cambiare e migliorarsi, senza prima avere conosciuto (realmente) se stesso ed essersi accettato per come è realmente.

VISIONE SOCIALE E CULTURALE

Il senso di colpa, nella nostra cultura, è diventato un concetto ampio e pervasivo: si ci arriva a sentire in colpa per tutto, per un’azione o per una omissione, per un giudizio proprio o altrui (reale o supposto).

Certamente il senso di colpa è anche un fatto relativo, forse filosofico, poiché è tale oggi in relazione al contesto socio-culturale in cui agisce (ciò che causa nella popolazione europea industrializzata non può causarlo tra le tribù della Amazzonia), e in relazione al significato che le persone ne percepiscono. Non sarebbe infatti corretto paralare di sentimenti e di dinamiche psicologiche senza affrontare la tematica (complessa quanto affascinante) del significato che viene riferito ad un determinato stato psichico. Come d’altronde è nel linguaggio: dove non è prudente elargire giudizi su un discorso verbale senza comprendere il significato che il soggetto attribuisce (o attribuiva) alla terminologia utilizzata.

Il sentimento di colpa può diventare facilmente una dinamica disfunzionale, non salubre come invece dovrebbe invece essere: un input ed un incentivo a porre rimedio agli errori e alle carenze delle nostre strutture di comportamento, mediante una modificazione delle stesse.
La colpa ha assunto, per alcuni, un sistema di giudizio e anche di giustificazione, un sentimento che rende lecita “una passività dell’agire”, ma soprattutto del non agire. Il rimorso si trasforma talvolta in un "alibi" dietro cui nascondersi per non affrontare la realtà, per non reagire a situazioni di difficoltà.

Sentendosi in colpa, l’individuo paralizzato nell’agire in modo positivo, spesso attua comportamenti auto-punitivi e lesionistici reputando erroneamente di scaricare in questo modo la tensione della colpa. (Il dolore è un “rimedio” spesso usato per alleviare la sensazione di colpevolezza).
Un'altra modalità che si riscontra spesso è la coazione a ripetere, ossia: l’azione, non correttamente elaborata dal senso morale interiore, viene ripetuta più volte proprio perché non è stata riconosciuta come nostra dal Super-Io.
Spesso queste mancanze, le cause delle colpe reali o presunte, vengono enfatizzate dall’ "io" inteso come principio di realtà freudiano. Da un “io” che "non ci concede di sbagliare", perché l’obbiettivo è quello idealistico di una perfezione, che impone percorsi di colpevolizzazione infiniti. Ciò conduce la persona ad un grande “spreco” di energie che si ritrova, poi, priva di forze per agire nel presente (energie psicologiche ma anche fisiche perché impiegate a rimediare presunti e spesso inesistenti errori, invece che essere dirette alla promozione del sé fisico e psichico, concetti legati indissolubilmente, tanto che inevitabilmente un problema dell’uno avrà ricadute sull’altro e viceversa).

Il senso di responsabilità, al contrario, promuove nella persona incentivi ad agire per modificare il reale ed il frustrante, in definitiva conduce al benessere ponendo il soggetto nella condizione di uscire dal circolo vizioso in cui è caduto.

NEI COMPORTAMENTI PATOLOGICI

Il sentimento di colpa più conosciuto nella psicologia è quello patologico.
Un concetto che, spesso, è prodotto da una azione (o non azione) che diventa poi la motivazione stessa, spesso, anche ricercata volontariamente per il ripetersi della condizione iniziale in un circolo senza fine.
Questa dinamica la ritroviamo particolarmente nelle sindromi da dipendenza, siano esse da cibo, da sostanze (alcool, psicofarmaci, droghe), da gioco d’azzardo o relazionali. Il senso di colpa innesca prima una sofferenza e poi un comportamento perpetuante il disagio in un circolo senza fine: il soggetto, infatti, decide più o meno consapevolmente di soffrire per motivare il ripetersi dell’azione patologica di cui sente il bisogno, quasi a poter giustificare l’ennesimo cedimento (alle volte, però, accade anche per punirsi o per punire chi gli sta accanto), situazione che spesso aggrava lo stato psichico, fisico e sociale del soggetto..
Ad esempio, nelle sindromi da alimentazione compulsiva (conosciute clinicamente nella sigla BED) colpa e frustrazione agiscono in interdipendenza: cedendo agli impulsi delle abbuffate nella persona si scatena un grande senso di colpa, vergogna, angoscia, ma soprattutto un senso di frustrazione che non si placa, e che viene placato (nuovamente) con un ulteriore cedimento al desiderio impulsivo dell’abbuffata; in questa dinamica il soggetto può ripetere il comportamento in risposta all’angoscia creata dalla precedente abbuffata, e abbuffarsi per ricreare questa condizione “colpevole e frustrante” che riporterà a sofferenza e ad un nuovo cedimento all’impulso: nelle accezioni comuni un cane che si morde la coda.

CONCLUSIONI

Tra sentimento (senso) di colpa e senso di responsabilità, possiamo notare facilmente come l’uscita da un circolo vizioso basato su una qualunque forma di disagio e dipendenza, deve comportare una modificazione della percezione del problema, ossia un cambiare prospettiva e quindi la tipologia di giudizio di sé: il passaggio dall’autocondanna ad un atteggiamento non-giudicante.
Questo mutamento (questo divenire) risulta essere tanto gravoso quanto utile poiché consente di pensarsi diversamente, e perciò di essere in grado, opportunamente aiutati, di pensare, progettare e mettere in atto comportamenti diversi e risposte alternative e sane, più prospere e positive. Modifiche dei propri schemi di mentali, questi, che possono facilmente portare, se non interamente, ad una riduzione considerevole del senso di colpa ossessivo (di cui appariamo “affetti”, assieme a molti comportamenti disfunzionali), migliorando in conseguenza diretta le nostre differenti situazioni psicologiche, sociali e fisiche.

In contrasto alle convinzioni comuni, secondo le quali se non si agisce direttamente sulla causa del disagio non si può ottenere miglioramento (visione ereditata dalla scuola classica freudiana e distortamente rimasta quasi come un dogma, per i non esperti), ci sentiamo di sostenere (in concordanza con altre scuole di pensiero altrettanto accreditate come quelle cognitivo-comportamentali) che agendo direttamente su i sintomi si può ripristinare uno stato di benessere, o mancanza di malessere, che estende il numero di strade da percorrere verso la guarigione ed un notevole miglioramento di “Se stessi”.

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Breve bibliografia di riferimento

A. Adler, Cosa la vita dovrebbe significare per voi, ed. Newton Compton, Roma 1994

D.W. Winnicott, Il bambino deprivato, ed. Cortina, Milano 1986

Dalai Lama, D. Goleman, Emozioni Distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente, ed. Mondatori, 2003

Di Blasio Paola; Vitali Roberta, Sentirsi in Colpa, ed. Il mulino, 2001

E. Fromm, Psicoanalisi e Buddismo Zen, ed. Oscar Mondatori, 2004

F. Benso, Neuropsicologia dell’attenzione, ed. Del Cerro, Pisa 2004