Riportiamo qui la risposta al commento arrivato all’articolo sull’orgoglio omosessuale inviatoci da “R.S.” (vedi articolo e commenti cliccando qui) riprendendolo pezzo per pezzo.
Cogliamo anche l’occasione per rispondere (ai leciti interrogativi) rivolgendoci solo per comodità a Lui direttamente (R.S.), ma tentando di dialogare con tutti i potenziali commentatori e lettori che abbiano trovato dubbi. E’ necessario chiarire che rispondere con semplici commenti ci pareva riduttivo, e da ciò la scelta di un articoletto, ma dobbiamo anche ammettere che per rispondere adeguatamente ad ogni singola domanda postaci non può bastare questo semplice pezzo, servirebbe invece un intero trattato.
Delle successive carenze e ripetizioni, quindi, ci scusiamo, e anticipatamente ringraziamo il tagliente commentatore per averci offerto lo spunto per un breve discorso di approfondimento della tematica tratta.
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- "Il corteo del Gay Pride 2007 ha invaso Roma ed ha portato alla ribalta il tema dell’omosessualità, la cui legittimazione viene rivendicata con orgoglio".
Non crede che simili manifestazioni, più che legittimare l'omosessualità come forma normale d'affetto, finiscano invece per rimarcare una distanza e una diversità?
Il Gay Pride non è una causa della distanza e della diversità, ma la conseguenza di un malessere che
le persone omosessuali vivono nel quotidiano e che deriva appunto da quanto esposto nell'articolo precedente.
In ogni modo ci sentiamo di affermare (anche) che il Gay Pride è comunemente identificabile in una festa (quasi) liberatoria; è in effetti una manifestazione provocatoria che tenta di legittimare l’omosessualità facendo parlare dell’argomento. Se questa poi, sia più svantaggiosa che utile al riconoscimento della affettività omosessuale ad oggi (Noi) non lo sappiamo, ma volgiamo anche ribadire come il rischio di rimarcare la “distanza e la diversità” non sia unilaterale, bensì bilaterale: può derivare sia dall’organizzazione e dai partecipanti, sia da chi esternamente vi assiste e che per difendersi da ciò che non vuole accettare si chiude in una modalità (anch’essa) eccessiva.
Ciò detto, va però chiarito che, come accade nei processi individuali, dove il soggetto reprime ciò che non gli è concesso dichiarare, così accade nei processi collettivi: non potendo infatti essere accettati per quello che sono, viene proposta una versione eccessiva e forse anche appositamente fastidiosa, viene proposto il brutto del “movimento omosessuale” in una smania di rivincita. Tutto parte, ovviamente, dal desiderio di manifestare e farsi vedere anche a chi non vorrebbe vedere, ma poi sconfina, altrettanto spontaneamente, in uno sfogo di aggressività accumulata nella repressione sociale.
Supponete ad esempio che una pulsione estremamente vincolante di Voi venga palesemente messa al bando, dichiarata non adatta e deviante. Si può immaginare che il soggetto in questione, per permanere nella società che ne richiede una circoncisione del suo “essere”, cerchi di acconsentire alle richieste. Ciò non diventa una cosa naturale, e produce inevitabilmente conflitti interiori.
Immaginiamo anche che il soggetto abbia in crescendo il desiderio di essere Se Stesso: dopo un po’ esso non avrà più la forza necessaria a nascondere la parte di lui non estirpabile; è quindi lecito supporre che la persona in questione, possa essere preda di un desiderio incontrollato di manifestarsi imponendo il suo essere con eguale intensità della repressione sociale impostagli.
Ne deriva quasi logico (in un concetto almeno teorico) che la manifestazione non può sottostare ai canoni stessi della società inquisitoria, e che veicoli in se stessa anche tutta la tensione accumulata: l’attuale Gay Pride, talvolta eccessivo ma soprattutto provocatorio.
- "Le paure che, talvolta, vivono gli adolescenti con inclinazione omosessuale sono il frutto della violenza sociale".
Io credo che la società sia semplicemente quella che è nell'epoca in cui vive. Dire che la società è violenta significa rapportarla ad una società diversa (se mai è esistita) facendo improbabili raffronti con luoghi ed epoche diverse. Esiste forse una società che non sia violenta? Chi definisce i parametri della violenza?
Secondo alcune definizioni l’uomo individuale è violento, e la società composta di uomini è violenta in conseguenza. Ma se è vero che la società è semplicemente quella che è e i raffronti sono improbabili, allora ci verrebbe da chiedere se sia giustificabile anche la reazione collettiva e di molti singoli (scusate il gioco di parole di questo esempio) individui della Germania Nazista..(?) All’epoca la società era ciò che era, ed aveva delle necessità che furono “soddisfatte” mediante i disegni tragici e manipolativi di figure carismatiche come quella di Hitler.. ma la società aderente al regime era oltremodo violenta (se così si può definire). Stando alla definizione esposta nel commento, estremizzandola, non potremmo giudicare violenta una simile società.
Personalmente io (Agostino G.) ritengo che per quanto una società sia quello che è, ovvero il frutto di se stessa e delle sue particolari esigenze in un determinato periodo storico, questo non escluda il diritto ed il dovere di ogni individuo di giudicarla violenta, cattiva, viceversa corretta ecc..
Comunque è appropriato chiarire più adeguatamente il punto di vista che ci porta a ritenere l’attuale società come “violenta”: riteniamo che l’azione di violenza (implicita ed esplicita) che questa utilizza sia di continui abusi psicologici.
La società che ad oggi manifesta i propri continui pregiudizi, spesso dettati da ignoranza e/o ostracismo, non si pone (realmente) nell’ottica di comprensione, condivisione e accettazione come invece ritiene di fare, tramite i movimenti di eguaglianza politici e religiosi; bensì essa condanna inesorabilmente ciò che da Lei, e dal Suo disegno di benessere e bel apparire sociale, si distanzia (il Lei è inteso come una indistinta maggioranza). A più passi è sempre rivisto il concetto che vede nell’omosessualità una condizione non soggetta a scelta, ma una condizione umana in cui “si è” per nascita; a più passi ci scontriamo però con il comune pensare inquisitorio che ne vede una scelta “da correggere” pari a quella di una tossicodipendenza e che emargina e maltratta, non solo nel senso ampio e psicologico del termine. Questo contesto (riassunto in pochi punti salienti) non può essere NON violento, poiché impone e giudica e perseguita chi per condizione è diverso. Manifesta un razzismo dottrinale (e non solo) grave e lesionistico verso il diritto di “quieto vivere” di ogni essere umano (nel rispetto dei diritti altrui).
Riassumendo Noi riteniamo presente una violenza morale costante verso tutto ciò che è diverso e che è difficile da comprendere, situazioni che inducono alla strada più breve: quella inquisitoria.
Chi definisce i parametri della violenza? La società stessa di quel momento.
La nostra attuale società si basa su dritti di uguaglianza e libertà di espressione (costituzionali, sociali e religiosi), si basa sul diritto unanime di una crescita psicologicamente sana.. Qui ci pare di aver già raggiunto il nodo e ci fermiamo: la violenza sociale implicita e spesso esplicita (offese, prese in giro, pestaggi, ecc.), verso le forme omosessuali sussiste soprattutto nella sfera psicologica, dove l’esclusione dal giusto vivere sociale e la pretesa della correzione di ciò che non corrisponde ad una scelta (rimanendo nella legalità), presuppone il rischio di scatenare gravi conflitti interni: gli stessi che possono portare alla devianza e alla malattia psichica che si ritiene (ad ignoranza) causa dell’atteggiamento affettivo omosessuale.
In psichiatria si definisce una Profezia Auto-Avverante una condizione che non sussiste al momento della formulazione verbale, ma che viene poi a crearsi grazie alla, più o meno conscia, attività dei soggetti che temono tale condizione. In poche parole l’omosessualità non è malattia (dal 1973 almeno, e già Freud nel suo primo saggio sulla sessualità del 1905 non riteneva l’omosessuale come condizione di malattia psichica), ma può divenirlo se una società la etichetta come tale. La totale non accettazione della società, dei propri cari (ecc.), può essere diretta causa (ad esempio) di forti depressioni e, non di meno, atti gravi (si veda ad esempio l’articolo sul Suicidio di Luca Giovanelli nella nostra rubrica). Ribadiamo: il disagio non è causa di omosessualità, ma è la conseguenza dell’impatto culturale odierno.
(In ciò ci domandiamo, anche, se è più necessario fermarci a discutere di logica stilistica e di filosofia, oppure se è maggiormente necessario metterci in azione per fare riconoscere le condizioni essenziali ai singoli individui? Rispetto per l’umanità e i suoi diritti, prima di tutto..)
- "la teoria secondo la quale l’inclinazione omosessuale ha un’origine genetica è stata sostenuta a partire dalla seconda metà dell’ottocento, ma poi è stata smentita da nuove ricerche".
Personalmente ritengo che considerare l'omosessualità come di origine genetica favorirebbe largamente la comprensione del fenomeno anche da parte dei più avversi...
Indubbiamente sarebbe più semplice la “dare colpa ai geni” ma perché non accettare la realtà per quella che è? Inoltre crediamo che una simile “diagnosi” non aiuterebbe a comprendere ma favorirebbe anche una corsa al tentativo (da parte del controllo sociale) di correggere proprio geneticamente una inclinazione patologica (se definita patologica per la disciplina della genetica), tramite la modifica dei geni.
Indubbiamente ha origini genetiche ma non di carattere patologico; le origini genetiche dell’omosessualità corrispondono a quelle dell’essere uomo o donna, anche se non disponiamo (Noi, ora) di studi adeguati a consolidare questa teoria in questo dialogo.
Per cui le cose resterebbero eguali se non peggiori ad ora. Inoltre la scienza ci dice che l’omosessualità non è definibile patologia, per cui per quale motivo dissentire senza differenti prove alla mano?
- "Le diverse ricerche biologiche, psichiatriche e sessuologiche sul tema omosessualità, che sono state condotte, hanno dimostrato la normalità delle persone omosessuali e delle loro famiglie d’origine, ognuna con una loro storia".
Significa che chi nasce con una tara genetica non è normale? Uno che nasce diabetico non è normale? Chi definisce che cosa è la normalità e che cosa non lo è?
Chi nasce diabetico o con un problema genetico non è anormale, ma semplicemente affetto da un disturbo; in ogni modo in medicina questa “tara genetica” è definibile come una condizione patologica (appunto la patologia del diabete) da curare per migliorarne le condizioni di vita. Inoltre il commentatore sottolinea la definizione di Normale, che (ahimè..) è un concetto complicato e troppo spesso frainteso, di cui non disponiamo adeguate capacità a definirlo in queste poche righe. Speriamo sia sufficiente (ai fini del nostro discorso) dissertare sul termine patologia invece che normale, addicendo grossolanamente che a definire la patologia è proprio la necessità di cure (mediche, psichiatriche, psicologiche ecc.).
L’Omosessualità non è condizione di Patologia: per gran parte del XX secolo l'omosessualità è stata considerata e trattata come disturbo. Nel 1973 l'American Psychiatric Association rimuove l'omosessualità dalla nosografia del DSM: "l'omosessualità, in sé, non implica una compromissione del giudizio, della stabilità, dell'affidabilità o delle capacità sociali e professionali" (Conger,1975). Nonostante i numerosi inviti da parte delle maggiori organizzazioni internazionali di psichiatri e psicologi, tra cui l'American Psychological Association nel 1991, a rimuovere ogni fonte di stigma per i clienti gay e lesbiche, il legame tra omosessualità e patologia (purtroppo) rimane.
- "Non si sceglie di essere gay o lesbica, l'orientamento sessuale (eterosessuale, omosessuale e bisessuale) si forma tramite complesse interazioni di fattori biologici, psicologici e sociali".
Mi può chiarire cosa intende esattamente con fattori biologici?
Non siamo biologi, ma sappiamo che nello sviluppo di un orientamento sessuale hanno un ruolo importante anche i livelli ormonali.
L’approccio bio-psico-sociale è il più accreditato in psicologia e in psichiatria: si fa carico di valutare gli individui nei loro disagi psichici, sia da un punto di vista medico e biologico (cause ormonali, disfunzioni di genere, ecc.) che psicologico (lo stato mentale e la personalità individuale) che sociale (il tutto nel contesto socio-culturale in cui vive). Si considera, in breve, l’individuo nella sua totalità, non separandolo in mente e corpo e ambiente.
Riteniamo importante riconoscere che con gli studi condotti sin ora non si può parlare di scelta omosessuale, in quanto essa è l’espressione di una affettività ponderale del soggetto. È (forse) una scelta nel momento in cui questo, seppure oppresso, decide di nascondersi fingendosi eterosessuale per sfuggire ai pericoli, oppure decide di affrontare i rischi del dichiararsi – per contro e per provocazione: sarebbe una scelta se un soggetto eterosessuale decidesse di reprimere la sua sessualità e affettività portandola nell’omosessualità, reprimendo e cercando di annullare la propria vera identità affettiva.
- "Essere omosessuale significa aver sviluppato una struttura affettiva del rapporto con l’Altro che attraversa i diversi piani dell’esistenza".
Questa frase non l'ho capita, ammesso che abbia un senso.
Lo sviluppo della personalità umana passa attraverso tappe fondamentali fisiologiche e psicologiche insieme: attraverso ciascuna di esse la persona raggiunge stadi successivi di maturazione, che portano alla costituzione dell’identità sessuale/affettiva. Fin dall’infanzia, si sviluppa un globale e complesso modo di sentire e di mettersi in rapporto con il mondo e con le altre persone.
- "Non vi è una norma eterosessuale obbligata e naturale, nel qual caso l’omosessualità diventerebbe l’anormalità. Vi sono diverse possibilità, tra cui l’affetto omosessuale".
Estremizzando, si potrebbe dire che anche la necrofilia, la zoofilia e l'incesto sono possibili varianti dell'affetto. Cosa ci porta a dire che alcune sono deviazioni ed altre no?
Per definire la devianza si può usare in questo caso (anche) il concetto di legalità: l’omosessuale non si scontra contro la legge (in questo caso) italiana.
Comunque, Necrofilia, zoofilia ed incesto fanno parte delle parafilie: secondo la definizione dell’American Association of Psychiatry le caratteristiche essenziali di una parafilia sono fantasie, impulsi sessuali e comportamenti ricorrenti intensamente eccitanti sessualmente che interessano: oggetti inanimati, sofferenza e umiliazione di se stessi o del partner, bambini e persone non consenzienti. Le parafilie devono essere nettamente distinte dalle fantasie erotiche a carattere più o meno “perverso” come stimolo per l’eccitazione sessuale. Le fantasie, i comportamenti e gli oggetti sono parafilici quando portano ad un disagio clinicamente significativo e risultano essere vincolanti, interferiscono con le relazioni sociali, portano a complicanze legali, e richiedono la partecipazione di soggetti non consenzienti.
- "Questa struttura interiore non è determinata meccanicamente ma si forma precocemente, a partire dai significati che il bambino attribuisce a sé nel rapporto con l’Altro e in base alle emozioni vissute nel rapporto con le figure, per lui, significative".
Come si concilia quanto dice qui con "lo stigma sociale" a cui gli omosessuali vanno incontro? Intendo dire: se le reazioni familiari come lei stessa dice sono spesso "di rabbia, sgomento, incredulità, sconforto" mi pare di poter logicamente dire che ben difficilmente il bambino possa avere trovato in ambito sociale, e più specificamente familiare, dei fattori che lo potessero indirizzare verso l'omosessualità.
Lo sviluppo psicosessuale è costituito da diverse fasi ed avviene in maniera inconscia, come le identificazioni con le figure significative. L’orientamento sessuale non viene “scelto” ma è una combinazione di diversi fattori; è la persona che poi decide se esternarlo o nasconderlo perché diventa difficile gestire lo stigma sociale.
L’individuo, quindi, si forma e si individualizza secondo il proprio essere, e secondo il valore che attribuisce al rapporto con gli altri. Per cui lo stigma sociale reprime e ostacola, ma il soggetto porta comunque dentro di Se la propria affettività, omosessuale o eterosessuale che sia.
In altre parole non è la società o i comportamenti che definiscono l’omosessuale (anche se si può variare da scuole di pensiero) ma il manifestarsi autonomo della sua essenza che scopre nel rapporto con gli altri.
- "Per evitare queste paure e queste reazioni diventa necessario riuscire a comunicare la propria omosessualità mettendone in risalto l'integrale positività".
In cosa consiste "l'integrale positività" dell'omosessualità? Se vi è un positivo deve esservi anche un negativo... Positività, dunque, rispetto a che cosa?
Essere omosessuali non è una colpa, non si nuoce a nessuno. Come già si è detto è una forma di affetto, in questo sta la positività.
Il positivo non è altro che l’accettazione di se stessi, in primis dentro di Se. L’omosessuale è spesso talmente stigmatizzato e rifiutato che un qualunque adolescente che scopre di essere Gay fa di tutto per cercare di capire cosa non va in se stesso. Ovvero non si accetta.
Il primo passo per la crescita del soggetto omosessuale è ammettere con se stesso di esserlo e ciò è positivo perché gli permette una migliore crescita psicologica.
Il negativo, pareva già molto chiaro: è la normale difficoltà di ogni essere umano, ad essere se stesso in un mondo che lo rifiuta, amplificato se si tratta di forme che taluni vorrebbero estirpare chirurgicamente!
Terminando: non sappiamo se abbiamo realmente risposto agli innumerevoli quesiti esposti o esponibili, ma riteniamo di avere meglio esteso la nostra visione di come la condizione omosessuale sia, ancora, ritenuta e pretesa differente da quello che è in realtà. Con questa comunicazione abbiamo il desiderio di invitare chiunque (società, famiglie, ecc.) a rivedere i propri presupposti sull’essere o meno omosessuale, poiché a prescindere dai motivi culturali che conducono al colpevolizzare e al rifiutare e al voler cambiare, l’omosessuale vive un contesto di grande sofferenza dove la società e la famiglia che dovrebbero accettarlo e proteggerlo, spesso, lo rifiutano e talvolta lo rinnegano.
Una situazione di difficoltà morale tale che raramente può essere esente da rischi di disagio psicologico e sociale, da parte del soggetto emarginato.
…un giorno vennero a prendere anche me…
Ripropongo l’articolo perchè mi pare in linea con l’interessantissimo e importante dibattito suscitato dalla notizia “@Lhttp://redacon.radionova.it/index2.php?/leggi_news.php?id=6751&origin=C&ogg=notizie@=Siamo tutti rom#L”.
(Agostino Giovannini, responsabile rubrica IL MONDO DENTRO)