“Fino ad alcuni decenni fa, per chi viveva in montagna, il principale mezzo per sostenere la famiglia era allevare capi di bestiame e, nei tempi più prosperi, la loro vendita poteva produrre un qualche provvidenziale sostegno per il non sempre florido bilancio familiare”. Con quest’assunto iniziale si sviluppa il pezzo che, firmato da Alessandro Gaspari, trova posto sull’ultimo numero del periodico Reggio Storia.
In esso si tratteggiano i momenti attorno ai quali si sviluppava, fino a pochi decenni fa, il rapporto di vendita di un animale allevato amorevolmente nella famiglia contadina (Agh sun atacada c’m ai me fiòo, diceva la donna di casa dell'animale rivolto all’estraneo venuto a scambiare la bestia coi soldi).
Scrive l’autore: “Quando si riusciva ad allevare una mucca in più – parliamo di mucca in quanto era il capo più allevato e per questo il più facile e redditizio da commerciare rispetto ad un suino od un ovino – i luoghi dove condurre il proprio animale per la vendita erano i mercati paesani e, soprattutto, le fiere”.
Ma non erano molti gli appuntamenti fieristici in Appennino. Anche la S. Michele di Castelnovo ne’ Monti da certi paesi del crinale era tutt’altro che semplice da raggiungere. Ci voleva spesso un’intera giornata. Ecco allora che entrava in gioco la figura del mediatore. “Egli girava per i borghi montani, allora molto popolati, alla ricerca di chi volesse vendere un capo di bestiame. Arrivava a cavallo o, nei tempi più recenti, in automobile. Era spesso paragonato al sacerdote per il suo eloquio persuasivo e, con abilità, riusciva a convincere il venditore e a fargli accettare le sue proposte”. Da buon venditore, egli, prima di comprare “non evidenziava mai i pregi che potevano presentare gli animali in questione; al contrario, ne rimarcava solamente i difetti”. Ma poi comprava.
La stalla era il locale di contrattazione. In essa si riunivano sovente tutti i familiari, a dar man forte nei confronti dell’”agente di commercio”. Alla fine si arrivava al picia chi la mana!: la stretta di mano che significava l’avvenuto accordo e l’impegno di entrambi i contraenti a mantenere la parola data.
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A. Gaspari, Quando la stretta di mano valeva più del rogito, in “Reggio Storia”, n. 115, aprile-giugno 2007, p. 56.