Non voglio pensare alle motivazioni che possono indurre al suicidio, vorrei pensare ai suoi ultimi istanti, entrare nei suoi sensi.. Le mani sudate, tremanti, tese, un sapore amaro dato dalla tensione, agitazione.. Il rumore del cuore, 1000 battiti al minuto, il respiro.. Niente di preciso, il vuoto…
Tutto ciò non arresta il pensiero dell’uccisione di sé.. La volontà agisce sopra ogni alta cosa.. In quei determinati momenti i tuoi flashback sono decisivi..
Chissà se, e quanti, tornerebbero sui propri passi potendo…
(Anonimo)
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Il letterato inglese Al Alvarez nel suo libro Il dio selvaggio scrive che “i veri motivi che spingono un uomo a togliersi la vita sono altrove; appartengono al mondo interiore, tortuoso, contraddittorio e labirintico, e sono per lo più fuori dalla portata degli altri”.
Il suicidio è un comportamento difficile da spiegare proprio perché ha a che fare con l’unicità della persona e del percorso esistenziale: elementi difficili da ridurre e riordinare in teorie sistematiche. Una difficoltà aggiuntiva risiede nell’ubiquitarietà del gesto suicidale: può succedere a persone portatrici di problematiche evidenti, così come riguardare individui la cui esistenza è ammantata da una superficie di normalità. Infine, il suicidio è un tema che viene relegato, con un misto di riserbo, reticenza e stigmatizzazione sociale, ai margini di ogni tipo di considerazione: nel gesto suicidale confluiscono regole, valori, abitudini dati per scontati e che, improvvisamente, vengono rimescolati e rifratti, come in un prisma, sotto forma di domande e interrogativi. Se dell’eclatanza del gesto altro non si può fare che prenderne atto, delle conseguenti perplessità si preferisce, come ogni concetto collegato alla morte, lasciare in sospensione nel limbo del non detto, del “c’è, ma non si vede e non se ne parla”.
L’Istat riporta un aumento costante del numero di suicidi a partire dalla metà degli anni’60, con una stabilizzazione attorno ai 3000 decessi nel 1985 circa. Nell’ultimo anno circa 4000 persone si sono tolte la vita, in maggioranza uomini (oltre 3000, mentre le donne suicide sono state poco meno di un migliaio). Il tasso di mortalità aumenta con l’età, con i picchi più elevati nella fascia di età compresa fra i 65 e i 75 anni. Il 2,6% circa delle morti per suicidio riguarda persone con meno di 19 anni di età: l’incidenza del suicidio giovanile è aumentata nel mondo del 60% negli ultimi 50 anni diventando la terza causa di morte fra adolescenti e giovani adulti (la seconda solo in Europa).
Dal punto di vista clinico il suicidio, ovvero l’atto vero e proprio di togliersi la vita, fa parte della categoria più ampia delle condotte suicidarie dentro le quali sono compresi anche ideazioni suicidarie e tentati suicidi.
Secondo uno studio recente (Miotto, 2003) sui giovani fra 15 e 19 anni, il 30,8% delle femmine e il 25,3% dei maschi riferisce di aver pensato al suicidio (il 5% con ideazione molto intensa). In un'altra ricerca, promossa dalla rivista Altroconsumo (Santos, Anelli, Sermeus, 2004) è stato coinvolto un campione di popolazione generale di oltre 3000 persone: i giovani intervistati (fascia di età 18-24) hanno ammesso di aver tentato il suicidio almeno una volta nella vita con percentuali che variano da 0,1 al 6,9% degli intervistati (con le percentuali più alte che riguardano le femmine rispetto i maschi). La prevalenza dei pensieri suicidari nella popolazione generale (non solo giovani quindi) è invece del 13,1 %.
Alcuni autori propongono ulteriori classificazioni, distinguendo fra suicidio impulsivo, risultato di scarsa elaborazione e di un unico acting out dettato dalla disperazione del momento non contenuta e gestita, e suicidio intenzionale, un percorso mentale lungo e tortuoso che comporta indecisioni, “marce indietro”, riprese e che può essere schematizzato in tre fasi, tutt’altro che lineari:
- un primo momento in cui la morte viene vista in positivo: togliersi la vita è considerato come l’ ultima fra le possibili soluzioni del problema. In questo caso la morte non fa paura e porre fine all’ esistenza diventa un pensiero che in alcuni casi allevia la sofferenza;
- la fase successiva prevede una lotta fra sentimenti ambivalenti, la valutazione dei pro e contro del suicidio;
- l’ultima tappa coincide con la presa di decisione vera e propria.
Del suicidio sono state fatte varie letture e sono state fornite numerose spiegazioni.
Dal punto di vista sociologico è molto conosciuto e citato Durkheim: lo studioso francese afferma che in ogni periodo storico una società ha una determinata “tendenza al suicidio”, non determinata dalla somma di singoli stati individuali ma da una sorta di anima collettiva, e proporzionale al livello di disgregazione della società e dei rapporti di cui un individuo fa parte. Durkheim propone una tipologia del suicidio che distingue fra suicidio egoistico, derivato da un’eccessiva affermazione dell’Io individuale a discapito dell’Io sociale; suicidio altruistico, espressione invece di forte coesione sociale dove l’individualità si annulla completamente nella collettività e il pensiero prevalente è che la propria morte sollevi e sia di aiuto agli altri; e il suicidio anomico, caratterizzato dalla mancanza di norme e valori di riferimento socialmente condivisi e che tenderebbe ad aumentare sia nei periodi di crisi economica, che in contesti di estrema prosperità. Quest’ultimo tipo è motivato generalmente quindi dalle frustrazione, delusioni e disillusioni che i rapporti e le reti sociali possono generare.
Il tema dell’isolamento e della debolezza dei legami sociali diventa il filo rosso che collega buona parte di tutti gli studi sociologici sul suicidio successivi
Halbwachs partendo dalla disgregazione sociale ha ricostruito il percorso individuale che porta un individuo al suicido, costruendo quindi una teoria psico-sociale del suicidio. Peter Sainsbury, sociologo inglese, mette in relazione il suicidio al “mutamento di status”, ampliando il concetto di isolamento e inserendovi la condizione di immigrazione, la disoccupazione e l’anzianità.
Warren Breed dal canto suo associa il suicidio con la mobilità economica discendente, ovvero la percentuale di lavoratori che si spostano verso fasce di reddito (e quindi verso un ceto sociale) più basse.
In campo psicologico si pone subito il problema di come collocare il suicidio: disturbo psichico oppure no?
Lo psichiatra Morselli lo esclude dalla psicopatologia a causa della volontarietà dell’atto, ri-collocandolo quindi nell’ambito dei comportamenti “morali” e quindi frutto di interazione fra ciò che l’individuo è e l’ambiente in cui vive.
Freud considera il suicidio un omicidio mancato: l’aggressività rivolta verso l’Altro odiato e interiorizzato sarebbe ricondotta verso se stessi, e porterebbe anche all’espiazione del senso di colpa causato dalla coscienza di tale sentimento ostile. Il suo allievo Karl Abraham riprende il tema dell’aggressività posizionando il gesto suicidario all’interno del “set” melanconico-depressivo.
Alfred Adler riconduce il suicidio all’esaurimento del sentimento sociale, l’apertura e la fiducia soggettivamente sentita verso gli altri e la società, in persone che hanno impostato il loro rapporto con il mondo sul desiderio di ferire gli altri.
Ludwig Binswanger dà una lettura fenomenologica del suicida, sottolineandone la frammentazione e la sua incapacità di proiettarsi nel futuro.
Il concetto di mancanza di risorse presente in nuce in Adler e nella psichiatria fenomenologica lo ritroviamo in parte nel concetto di helplessness della psicologia cognitiva: un senso di impotenza che deriva da esperienze nelle quali l’individuo ha sperimentato la sua inefficacia nel controllare l’ambiente in cui vive e gli eventi.
Difficile tracciare un profilo del suicida “medio”: lo studioso americano Edwin S. Shneidman identifica però 10 caratteristiche psicologiche (commonalities) emotive, cognitive e comportamentali comuni nel 95% dei tentativi di suicidio:
1. Lo scopo comune del suicidio è la ricerca di una soluzione. In questo caso il suicidio diventa la risposta, apparentemente l’unica risposta possibile;
2. L’obiettivo comune del suicidio è la cessazione della sensazione di consapevolezza, nei confronti della sofferenza vitale e dei problemi;
3. Lo stimolo comune del suicidio è l’insopportabilità della sofferenza psicologica (psychache). Il suicidio è una risposta esclusivamente umana ad un estremo dolore psicologico;
4. Lo stressor comune del suicidio è rappresentato dalla frustrazione dei bisogni Psicologici;
5. La sensazione emotiva comune nel suicidio è di disperazione e di abbandono: “non v’è niente che io possa fare (eccetto che uccidermi) e non v’è alcuno che possa essermi di aiuto”;
6. Lo stato cognitivo comune nel suicidio è l’ambivalenza. Sono onnipresenti le fantasie di salvezza e ciò costituisce l’imperativo morale per l’intervento clinico;
7. Lo stato percettivo comune nel suicido è la costrizione interessante sia l’emozione che l’intelletto: “non v’era null’altro da fare. L’unica via d’uscita era la morte”.
8. L’azione comune del suicidio è la fuga o l’uscita: “almeno mi tirerò fuori da questo tormento”;
9. Il gesto interpersonale comune nel suicidio è la comunicazione delle intenzioni: la maggior parte dei pazienti che intendono commettere suicidio emettono segnali di preoccupazione, lamenti, o desiderio di intervento (altrui);
10. Il quadro comune del suicidio è la costanza dello stile di vita. Poiché il suicidio, per definizione, è un gesto che il soggetto non ha mai fatto prima, in questo caso appare di utilità l’autopsia psicologica.
Da quello detto fino ad ora risulta chiaro che non esiste una spiegazione unitaria del suicidio, ma secondo noi, si può ragionare a due livelli: un primo livello riguarda le rappresentazioni sociali, ovvero le modalità con cui viene “costruito” a livello della cosiddetta opinione pubblica.
Il già citato studio di Miotto (2003) che esplora questi aspetti e ci permette di fare un discorso generale anche sul secondo livello: i fattori di rischio, cioè quegli elementi che in combinazione (e in che misura e in che modo essi si combinano è un altro dei punti nodali particolarmente difficili da sciogliere).
Fra le opinioni più diffuse circa le cause alla base del gesto suicidario ci sono quelle che vedono le persone che tentano di togliersi la vita come sofferenti di depressione, i disturbi della personalità o comunque di una qualche forma di malattia mentale.
In realtà poco più di un terzo del totale dei suicidi avviene per cause psichiche conclamate: la maggior parte dei suicidi quindi non sono malati mentali.
Molto diffuse (e più realistiche) anche le convinzioni circa il suicidio come un modo per fuggire dalle responsabilità della vita, come il punto finale di un crollo verticale della fiducia in sé e dalla speranza. Tali aspetti si ricollegano indubbiamente al quadro cognitivo ed emotivo di depressione: nei suicidi esso però non si presenta come conclamato, ma piuttosto come una serie di segni diffusi e “sottosoglia”.
Benché venga riconosciuta un'influenza anche alla mancanza dei valori all’interno della società, le motivazioni relazionali e prettamente sociali, come un ambiente familiare negativo e caratterizzato da oppressione/violenza o le difficoltà a comunicare il proprio disagio poiché non si ha nessuno con cui parlare, seppur abbastanza condivise non raggiungono le percentuali delle convinzioni precedentemente elencate.
Il dato decisivo nel caso del suicidio non sembra in effetti solo quello che il suicida pensa e sente, quanto la difficoltà o l’impossibilità di esprimerlo e condividerlo: l’isolamento e più in generale la disgregazione sociale sono altamente correlati al suicidio. L’Umbria, regione che presenta scarsi collegamenti ferroviari con il resto del paese, e soffre quindi di un certo grado di isolamento, presenta un tasso di suicidio superiore alla media nazionale.
Un’altra opinione ampiamente condivisa dalla popolazione generale è che chi tenta di togliersi la vita poi non ci riproverà più: invece le statistiche individuano nei pregressi tentativi di suicidio un fattore di rischio importante, con il 40%-60% dei suicidi che in precedenza avevano già tentato di uccidersi almeno una volta.
Se poi ci focalizziamo sulla popolazione giovanile, oltre agli aspetti presentati finora dobbiamo aggiungere che il rischio aumenta nelle situazioni di fragilità familiare o di distacco non accettato dal nucleo familiare, quando c’è stato un parente o un conoscente che si è suicidato o ha tentato di farlo, e quando si sperimenta l’insuccesso scolastico.
Per la popolazione anziana invece un ulteriore fattore di rischio è la perdita del partner.
E’ naturale conseguenza di quando detto sinora che non si può affrontare un problema così complesso e articolato solamente con gli strumenti della psichiatria e della psicopatologia: occorre interrogarsi e intervenire con un approccio ampio, di comunità, che ne comprenda le numerose sfaccettature e i tanti fattori in gioco e che coinvolga nella sua interezza la cittadinanza e la società civile.
L’eccezione e l’emergenza devono lasciare il posto alla riflessione sul suicidio come problema che riguarda la salute e il benessere sociale.
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Vedi anche:
- E’ possibile fuggire dalla vita a 11 anni? (1 novembre 2007)