Le parole di carattere storico pronunciate con notevole coraggio e onestà nei giorni scorsi dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano sulla tragedia delle foibe hanno incontrato (insieme alle proteste della Croazia) il favore di tutte le forze politiche.
Se col tempo si riuscirà a far riemergere, man mano, tutti i risvolti seguiti al secondo conflitto mondiale (anche quelli, cioè, meno "esplorati") senza aver timore che ciò possa costituire "pretesto" per mettere in discussione o minimamente inficiare la sacrosanta lotta di Liberazione italiana, che ha moralmente riscattato il nostro Paese da una dittatura che lo aveva condotto prima alla privazione della libertà e poi ad una guerra disastrosa, ciò non potrà che fare del bene e contribuire realmente a quella pacificazione (e un piccolo segno simbolico non potrebbe essere quello di unificare le date, vicine nel calendario ma lontane nel sentire politico che ne ha ispirato le rispettive istituzioni, delle Giornate della Memoria, 27 gennaio, e del Ricordo, 10 febbraio?) che tutti, da anni, a parole predicano e dicono di perseguire ma che ciascuno vorrebbe intesa a proprio modo.
La capacità di riconoscere errori od eccessi – che forse possono essere comprensibili se valutati sul più ampio piano storico – non può che contribuire a rendere più chiari e cristallini i contorni di un periodo difficilissimo, in cui si mescolarono odi politici, aspirazioni utopiche, vendette trasversali, guerre esterne e interne; e favorire col passare del tempo una certa convergenza e il formarsi di una memoria (più) condivisa da parte di tutti gli italiani.
Forse sarà difficile raggiungere tale traguardo finchè le generazioni coinvolte, che si portano ancora fisicamente e soprattutto psichicamente addosso i segni delle tragedie passate a distanza di 60 anni, non passeranno, ma ugualmente è doveroso provarci. In questo senso pare ancora più opportuno il discorso dell’inquilino del Quirinale, il primo proveniente dalle file della sinistra dall’instaurazione del regime democratico: anche questo un aspetto di tutto rilievo.
Questa premessa per introdurre la pubblicazione di un contributo pervenutoci, sulla vicenda di "Trieste libera", che tocca il tema affrontato pubblicamente dal nostro Presidente. Lo presentiamo ai lettori in questo spirito, aperti ovviamente ad ulteriori interventi.
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Le bandiere abbrunate che una brezza quasi primaverile fa sventolare sulla facciata del Municipio mi hanno sorpreso giusto per il tempo necessario a ricordare che ieri ricorreva il giorno dedicato alla memoria di quanti, negli anni dal 1943 al 1950, furono vittime di vendette antifasciste prima e di una vera pulizia etnica dopo. Teatro di quegli orrendi crimini furono i territori giuliani e istriani riconosciuti all’Italia dal trattato di Rapallo del 1920 ed occupati dai partigiani di Tito nel corso della lotta di liberazione contro i nazisti. Nell’aprile del ’45 anche Trieste fu occupata dagli iugoslavi e nel maggio successivo la Venezia Giulia venne divisa in due: la zona A, con Trieste, fu posta sotto il controllo anglo-americano; la zona B venne affidata alla Iugoslavia. In un primo tempo, cioè a cavallo del ’43-’44, vennero perseguitati gli ex fascisti di qualsiasi rango, per i quali era facile trovare motivazioni reali o verosimili, ma in seguito bastò essere italiani per subire ogni sorta di angheria, compresa la cacciata dalle proprie case e dal proprio territorio. Portatori di tanta ingiustificata barbarie furono i partigiani di Tito che si concessero ogni nefandezza nel silenzio generale delle Nazioni e nell’indifferenza (quando non sconfinò in approvazione) del nostro Partito Comunista, allora più vicino ai “titini” che ai nostri connazionali. Il culmine della barbarie comunista iugoslava venne raggiunto con la tragedia delle foibe (fosse carsiche anche assai profonde) nelle quali vennero gettati migliaia di italiani, intere famiglie o interi villaggi. Come risulterà in anni recenti, molte persone vennero gettate nelle foibe addirittura vive e legate, mani e piedi, con filo metallico. Per anni ed anni su questi eccidi di massa gravò il silenzio più profondo e chi tentò di squarciarlo venne liquidato come nostalgico, fascista e provocatore. Finalmente l’anno passato si è data dignità nazionale ad un ricordo che aveva diviso la Nazione ed in questi giorni il Presidente della Repubblica, con un messaggio nobile e forte, ma tardivo (per Lui), ha ricordato quei fatti e le gravi responsabilità gravanti su chi allora non volle vedere, sentire e parlare.
Tutto questo preambolo per contestualizzare (come si dice oggi) un fatto politicamente grave che successe nell’autunno del ’45 o, al più, nella primavera del ’46 a Reggio Emilia.
Avevo tredici anni appena compiuti, frequentavo il primo anno del liceo scientifico “L. Spallanzani” ed ero “a pensione” da una vedova in via Roma, n. 45. Divideva con me questa non invidiabile sistemazione Giuseppe Cherubini, figlio della maestra di Quarqua. Dire che le condizioni erano precarie e dure, non è esagerato. Alle finestre mancavano i vetri e mio padre ovviò all’inconveniente incollando sui telai della carta “oleata” di grosso spessore che si usava, anche, per avvolgere le pancette di maiale. Per consentirci di avere un po’ di buio, sempre mio padre incollò sulle persiane fogli di carta blu scuro. Il vitto ce lo portavamo da casa ogni settimana (salumi, pasta e pane fatto in casa, verdure, mele, dolci, ecc.) e lo dividevamo con la famiglia che ci ospitava (madre e figlia). Non c’era davvero abbondanza, ma occorre ricordare che la guerra era finita da soli cinque mesi.
A scuola facevamo anche turni pomeridiani per sopperire alla carenza di aule. Gli studenti più grandi avevano diciott’anni e la loro maturità li portava ad interessarsi di cose importanti.
In quel tempo Trieste era amministrata provvisoriamente dagli anglo-americani e la sua destinazione definitiva era tanto incerta da costituire un grave problema per il sentimento nazionale. Chi ricordava il tributo di sangue che l’Italia aveva versato nella prima guerra mondiale non poteva certamente ammettere che Trieste ci fosse tolta. Di altro avviso il PCI ed i suoi aderenti, propensi a favorire la Iugoslavia, assai vicina politicamente e facente parte dello stesso organismo politico internazionale guidato da Mosca al quale partecipava anche il partito di Togliatti (COMINFORM).
In questa situazione, la gran parte degli studenti delle scuole di Reggio maturò l’idea di organizzare una manifestazione per affermare “l’italianità di Trieste”. Si fissò la data e si decise che il luogo d’incontro sarebbe stato “piazza del Cristo”, lo slargo che unisce via Ariosto a corso Garibaldi. Il giorno fissato, all’ora fissata, gli studenti iniziarono a confluire nella piazzetta. Il servizio d’ordine era garantito dalla “Polizia Partigiana” schierata a cerchio tutt’intorno. Noi portavamo cartelli inneggianti a “Trieste italiana” e scandivamo slogan dello stesso tenore. Passò poco tempo e nella piazza giunsero operai delle “Reggiane” armati di catene, tubi e sbarre e cominciarono ad aggredirci e colpirci con lo stile e la violenza delle indimenticate squadracce fasciste. Poco dopo comparve anche un motocarro, sempre delle “Reggiane”, che iniziò un veloce quanto terribile carosello tra i manifestanti. La “Polizia Partigiana” chiuse ogni via di fuga e noi restammo alla mercè di quei fanatici che, per puro odio politico, menarono botte da orbi a tutti coloro che riuscirono a raggiungere. L’odio e la violenza erano tali che non ci si potè salvare nemmeno tentando di rifugiarsi in qualche portone aperto o salendo le poche scale accessibili. Ovunque e comunque si era rincorsi e malmenati brutalmente. Io, forse per la mia giovanissima età, me la cavai con qualche calcio nel sedere e qualche ceffone, ma Ino Magnani e Domenico Pignedoli (fratello del cardinale) – entrambi di Felina e studenti del Classico – furono ridotti a maschere di sangue. Quando potei, sgusciai tra i poliziotti e gli operai e rientrai a casa, in via Roma. Dalla finestra potei osservare il continuo passare di operai e di operaie delle “Reggiane” che andavano a dar man forte ai “picchiatori” che già operavano in piazza del Cristo. Le donne, per non essere da meno degli uomini, si erano “armate” di mestoloni da cucina (grandi come secchi e con manici lunghissimi) e di ogni arnese utile a far legna.
Così, tra lividi, sangue (poco, per fortuna) e qualche osso rotto finì la nostra manifestazione per Trieste italiana: eravamo nella “democraticissima” Reggio, ci protesse la “Polizia Partigiana” e fummo “menati”, senza colpa alcuna, dai “compagni operai” del Partito Comunista Italiano.
La cosa ebbe un seguito inimmaginabile.
Agli inizi del ’48 la Iugoslavia venne espulsa dal COMINFORM a causa della scarsa propensione manifestata da Tito ad accondiscendere alle pretese russe di interferire direttamente negli affari interni della nazione iugoslava. Il suo governo venne accusato di “nazionalismo”, di tendenze alla “degenerazione borghese” e di ricercare intese con i “paesi imperialisti”. Dopo un periodo di isolamento internazionale e di grandi difficoltà, Tito si avvicinò agli USA.
Anche per il PCI divenne un traditore, finirono le ragioni ideali per sostenerlo e così cambiò musica. Noi studenti ce ne accorgemmo presto: infatti gli stessi che poco tempo prima ci avevano massacrato di botte, con incredibile faccia di bronzo si presentarono al Liceo per chiederci se eravamo disposti a fare con loro una manifestazione per “l’italianità di Trieste”. Rifiutammo, ed è ovvio, per tutte le ragioni che sopra ho ricordato.
L’italianità di Trieste sarebbe stata sancita solo nel 1954!
Questa è la storia vera che io ed altri amici studenti fra i tredici ed i diciott’anni abbiamo vissuto nell’autunno del ’45 o nella primavera del ’46. L’imprecisione della data non vi tragga in inganno: alcuni paletti sono fissi nella memoria, altri più sfumati. Se qualche dubbio vi assale, chiedete a chi era studente allora e ne avrete conferma.
Ma soprattutto meditate sul profondo senso democratico di quei nobili signori!
(Prof. Umberto Casoli, Castelnovo ne’ Monti)