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L’omelia natalizia di Mons. Caprioli

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Vedo qui la basilica piena di gente. E così immagino anche le altre chiese della città. Quale ragione ci ha portati nel cuore della notte a questa liturgia di Natale?

Arrivati qui in chiesa, magari dopo aver corso lungo la giornata per riuscire ad assolvere i mille impegni della vigilia, quasi non sappiamo le vere ragioni della festa.

Qualcuno potrebbe dire: “Sono qui in obbedienza alla tradizione che sento come un bene di famiglia, prezioso da custodire gelosamente. È come ritrovare il proprio passato, provare la poesia di un tempo, immaginare i volti di persone care, tuttora presenti nel ricordo”.

Qualche altro potrebbe invece confidare: “Sono venuto per il desiderio di una parola diversa, di un’emozione più profonda, di un incontro da custodire a lungo nel cuore”. Che cosa ci dice il Vangelo?

Dio con noi

Il messaggio centrale racchiuso nel Vangelo di Natale è uno solo ed è l’annuncio del “Dio con noi”. Badiamo: non solo il Vangelo parla di un Dio “per noi”; tanto meno parla di un Dio che si interessa di noi uomini finché può, se lo preghiamo, ma poi — come tutti i benefattori di questo mondo — una volta conosciuto il mondo con cui si ha a che fare, stacca.

Così concepisce la divinità un racconto indiano. Il dio Shiva, dopo aver creato il mondo e gli uomini in un momento di esaltazione, vistosi rifiutato, in un attimo di ira incandescente, distrugge il mondo e l’uomo che lui stesso aveva creato.

No, il Dio cristiano non è un Dio così: sarebbe terribile cadere nelle mani di un Dio così! È piuttosto il “Dio con noi”, il Dio che liberamente ha scelto di stare con l’uomo e, nel Figlio suo Gesù, ha scelto di condividere in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana. È dunque il Dio che ama l’uomo, fino a farsene una passione. Non si può amare veramente se non con passione e pagando un prezzo: quello della fedeltà all’uomo.

Credere in un Dio così vuol dire credere così nell’uomo creato e amato da Dio. Vuol dire credere nella originalità, singolarità di ogni persona, nella dignità indistruttibile di ogni uomo. Credere così vuol dire uscire dalla logica del numero. La logica del numero già vigeva all’epoca di Gesù, all’epoca del censimento indetto dall’imperatore, come racconta il Vangelo di questa notte (cf. Luca 2,1-3).

Sì, agli occhi del “signore di quel tempo”, Maria era un numero; Giuseppe un numero; i pastori dei numeri. Perfino Gesù, il Figlio di Dio appena nato, era considerato un numero: un piccolo segno sulla scheda anagrafica. Ma l’uomo è pensabile solo in termini quantitativi, misurabili?

Ebbene, il Vangelo di Natale ci dice che no: che l’uomo, ogni uomo, non è pensabile in termini quantitativi. È significativo che i Vangeli di questi giorni più di una volta ci richiamino al significato del nome.

“Non temete — dice l’angelo ai pastori — ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, il cui nome è Cristo Signore”. Mi domando se non stia qui la gioia del Natale: la gioia del nome ritrovato.

Chiamati per nome

Conservo ancora la trascrizione del mio Battesimo. Mi piace guardarlo dopo ormai tanto tempo da quel giorno, entrare in una specie di tacito colloquio con quel nome registrato tanti anni fa e dirmi: “Sei stato chiamato anche tu per nome. Un nome, e quindi una persona con un destino iniziato a partire da quella data di nascita. Qui non c’è nulla di ciò che nella successione degli anni diventa motivo di prestigio, di competizione, di vanità. Sei solo un nome e, con il nome, il segno di una totale dipendenza”.

Mi viene voglia di dire: “Ecco chi sei, al di là dei successi che hai già conseguito o che saprai conquistare. Sei solo un nome, un tuffo nell’esistenza, un grido, un’invocazione, un appello. Sei solo un nome, seguito da quello dei tuoi genitori, a ricordarti che tutto hai ricevuto e di tutto hai bisogno”.

Cambiano le situazioni nella vita, ma la realtà fondamentale rimane questa. Ciascuno, lo sappia o non lo sappia, è solo fragilità implorante. Il non dimenticarlo è già un passo sulla via della saggezza.

Ma il nome mi sollecita a fare un’altra riflessione. Potremmo parlare di un significato mistico del nome di Battesimo. È il fatto, per chi abbia una certa familiarità con la Bibbia, che il nome racchiude sempre qualcosa di grande, di misterioso, di unico, di sacro. Ogni nome, anche se preso dalla lista dei personaggi invece che dalla litania dei santi, allude sempre ad un nome segreto, al nome che, secondo la pagina dell’Apocalisse, è il sogno di Dio su ogni bambino che nasce: scritto su di una pietra bianca, come a dire che Dio ricomincia da capo il disegno della creazione (cf. Apocalisse 2,17).

Il Signore ci chiama per nome, ad uno ad uno. Ai suoi occhi non siamo un numero, come all’anagrafe: “pratica numero …” su di una scheda già preconfezionata a cui porre solo una firma.

No, siamo un nome, pronunciato da Dio con la tenerezza di un Padre, che non abbandona mai le sue creature. Qualcuno — è già successo — può anche pretendere di vedere il suo nome cancellato dal registro di Battesimo. Ma una cosa non riuscirà mai ad ottenere: che venga cancellato dal cuore di Dio. Il cuore di Dio è più grande di tutte le pretese umane.

Verrà un giorno in cui la liturgia, anche su di te, pregherà: “Non togliere, Signore, il suo nome dal libro della vita”. Ma quanto più potente sarebbe questa preghiera se io, tu, ciascuno di noi ogni giorno fossimo capaci di dire: “Signore, non dimenticare mai il mio nome. Custodiscilo sempre nel tuo cuore, come Tu solo sai, con indulgenza, pazienza e tenerezza grande”. Troviamo qui la ragione della dignità data da Dio e riconosciuta all’uomo, ad ogni uomo.

In un tempo in cui culturalmente la vita che nasce e che muore, che ama e soffre, viene sottoposta a controlli di qualità, in certa misura anche accettabili, mi sembra importante non perdere questa visione dell’uomo che fonda la stessa qualità della vita nella dignità data e riconosciuta alla persona. L’invito è all’atteggiamento “solidale” di fronte alla vita che nasce e che muore.

Ambedue le condizioni, nascita e morte, sono caratterizzate dal fatto che un uomo possa dire ad un altro uomo: “è bene che tu esista, come un dono, così come concepisco me stesso quale dono di fronte alla mia esistenza”. Non è facile, ma non impossibile. Mi ha colpito sapere che una famiglia, per insistenza degli stessi fratelli, abbia riaccolto in casa la più piccola sorellina, prima affidata alle cure delle sorelle e dei volontari di una Casa della Carità.

Così i segni del Natale diventano visibili anche nella “città degli uomini”. Molti uomini di buona volontà operano ogni giorno perché la società civile diventi sempre più una dimora degna per i propri figli e per tutti gli uomini, nella pazienza e nella condivisione, senza pretese violente ed utopiche: “zelanti nelle opere buone”, come ci ha ricordato la seconda lettura (Tito 2,14).

E la “Gloria del Signore” che, in quella notte straordinaria, “avvolse di luce” (Luca 2,9) i pastori, incomincia a rendersi visibile anche in noi. Come avvenne per Maria e Giuseppe. Per i pastori e i Magi. E, via via, per tanti, ormai da millenni: persone di ogni etnia, cultura e religione che da secoli facciamo rivivere con tenerezza in poetiche fattezze nei nostri presepi. Presepi che una minore autostima del nostro essere cristiani vorrebbe emarginare, o addirittura cancellare.

Il presepe è il simbolo del gran teatro del mondo: ognuno vi svolge la sua parte, ma uno solo è il protagonista: il santo Bambino nel quale “si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tito 3,4). Con la sua nascita Gesù, vero Dio e vero uomo, ti interpella in prima persona e ti dice: “O uomo, l’enigma del tuo essere è sciolto: che vuoi fare della tua libertà?”. Sia questa domanda la ragione della nostra fede e la forza della nostra preghiera.

BUON NATALE!

+ Adriano VESCOVO