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The Jean-Michel Basquiat show

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Come i miti del jazz, non seppe vivere a lungo.
Si spense a 27 anni, quasi 28, fulminato dagli eccessi.
Più giovane di Modigliani, dall’altra parte del mondo.
Come Amedeo e tanti altri, immolò la sua arte all’altare dell’inquietudine.
Come nessun altro, fu pittore di successo nonostante la pelle nera.
Divorò gli anni Ottanta, sino a farsi divorare.

Come nessun altro, e come in pochi riuscirono a capire, fu campione di tenerezza.

Per i critici, fu il pittore ribelle, la scheggia impazzita, il grafomane sovversivo.
Per alcuni, semplicemente, il figliastro di Andy Warhol, il suo cucciolo da crescere.

Per me fu un fenomeno.
Un fenomeno di tenerezza.

La si coglie delle sue parole, tutta questa tenerezza. Dai suoi occhi bagnati mentre, intervistato, racconta di se stesso, talvolta con imbarazzo, riempiendo i lunghi silenzi col sorriso gentile.
Cavalcò la società dell’immagine, con determinazione e talento, ma mai amò apparire.
Fu eccentrico, fu spregiudicato, fu amabile e amato.
Da molti, fu invidiato.

Nacque a Brooklyn nel 1960, da famiglia borghese, madre di origine portoricana e padre haitiano. Travolto da un’automobile, ancora bambino rischiò la vita; appena teenager, più volte fuggì di casa, abitando parchi e strade, insieme ai barboni, mantenendosi vendendo piccoli disegni su cartoline. Lo spedirono in un istituto per adolescenti difficili, più volte il padre lo percosse, sino a quando non rincasò mai più.

Con l’amico Al Diaz, divenne SAMO, e come SAMO firmò frasi di ribellione e poesia sui muri di Manhattan.

Da lì a poco, intervennero critici e galleristi, lo catturarono, lo imposero sulla scena, lo arricchirono, si arricchirono: SAMO divenne Jean Michel Basquiat, il bambino prodigio, il talento senza regole.

Realizzava quadri con velocità impressionante, buttando su tele e tavole di legno pennellate di rabbia ed energia, dolcezza e magia. C’è molto di lui, in quei volti impazziti, negli occhi che vorticosi puntano al cuore, nei colori come saette, nei simboli e nelle parole che ripetutamente affiancano le immagini: ossessioni, fobie, paranoie, la visione distorta dalla droga.
C’è tutta la sua intelligenza, un’intelligenza di pancia e cervello, caustica quanto raffinata.
Un’intelligenza dilagante, troppo grande per essere contenuta in una vita, in questo mondo.

Per alcuni, la sua fu arte primitiva, per altri arte infantile, altri ancora parlarono di post-espressionismo. Quale errore più grande che ingabbiare il genio in una definizione?
Disse un giorno Basquiat: “ Non so come descrivere il mio lavoro perché non è mai la stessa cosa. È come chiedere a Miles Davis: Beh, com’è il suono della tua tromba?”.

C’è molta pelle nera, nelle opere di questo ragazzo nero borghese che volle vivere come i neri di strada e che sognò di diventare famoso come i neri del jazz. C’è la fatica dell’essere nero in una città razzista, l’umiliazione quando nessun taxi si ferma, nonostante ti chiami Basquiat, nonostante la fama, i soldi, le donne, la tua arte.

C’è voglia di purezza, nonostante tutto il marcio della droga, dell’odio, della violenza attorno.
La purezza dei bambini, dei supereroi, di Louis Armstrong mentre canta “What a wonderful world”.

La purezza di un ragazzo che non volle mai crescere, per cui i sogni di plastica si realizzarono in tormenti, che non seppe mai mediare tra il nulla e l’eccesso.
Realizzò dipinti incredibili, prese il cuore delle donne più belle, persino quello di Madonna; navigò tra i dollari col suo fare ciondolante, piedi nudi e completo Armani. Conquistò gli artisti e gli uomini di cultura, fu celebrità tra le celebrità. Ogni party era il suo party, ogni serata la sua serata, ogni impresa la sua impresa.

Ogni droga la sua droga.
Arrivò al punto in cui la sola arte non poteva bastare a colmare tutti i suoi vuoti.
Fu come se le ferite che riportò ancora bambino, travolto da quell’auto, non si fossero mai cicatrizzate, ma al contrario ogni giorno si aprissero di più.
La droga fu il suo anestetico. Nonostante l’intelligenza, il talento, il genio.

Di troppa droga perì. Pochi giorni dopo, si sarebbe dovuto recare in Africa, secondo un programma di disintossicazione presso uno sciamano.

Due anni prima, rispondendo alla domanda: “Se ti restassero solo ventiquattro ore di vita, che cosa faresti?”, Basquiat rimase per un attimo in silenzio, fissò la giornalista coi suoi occhioni bagnati, abbozzò un sorriso gentile, poi con voce timida sussurrò: “Non lo so. Me ne andrei in giro con mia madre e la mia ragazza. Credo.”.

Di troppa tenerezza si può perire.

La Triennale di Milano
Viale Alemagna 6,
orario: 10,30-20,30
chiuso al lunedì
fino al 28 gennaio 2007