I giovani guadagnano il 26% in meno rispetto agli adulti, e non solo quando sono precari ma anzi soprattutto quando sono laureati e ben qualificati.
Lo rileva il rapporto annuale dell'Istat. In media, un lavoratore dipendente con meno di 35 anni, in un’azienda con almeno 10 addetti, prende 18.564 euro all’anno contro i 25.469 di un collega over 35. Lo svantaggio, anche a parità di titolo di studio, viene attribuito alla mancanza di esperienza di un giovane rispetto al lavoratore più anziano.
Si parla, naturalmente, di medie e di situazioni che si verificano in settori più tradizionali, mentre in campi come quello informatico la duttilità e la freschezza di preparazione delle giovani forze di lavoro sono spesso un'arma vincente anche sul piano retributivo.
Le spiegazioni del fenomeno sono molte, e fortunatamente non richiamano condizioni di precarietà di cui si parla spesso per quanto concerne il mercato del lavoro giovanile. I motivi sono altri. All’inizio della carriera lavorativa, spiega l’Istat, il capitale umano dei giovani appare definito sostanzialmente solo dalla loro formazione scolastica. Con il passare del tempo, l’esperienza sul campo contribuisce ad accrescere abilità e competenze, determinando un progressivo incremento della produttività del lavoro e, quindi, della retribuzione. A parità di ogni altra caratteristica, dunque, i differenziali retributivi per età dipenderebbero in larga misura dall’accumulazione del capitale umano specifico, cioè delle capacità produttive che i lavoratori acquisiscono negli anni attraverso l’apprendimento in azienda.
L’Istat calcola che l’esperienza nell’accumulazione del capitale umano di un individuo pesi per almeno 14 punti percentuali sul differenziale retributivo che separa lavoratori giovani e adulti, pari al 25,9%. Un dato, quest’ultimo, che, depurato degli effetti dovuti alle diverse caratteristiche individuali (tra cui il titolo di studio) non scende oltre il 16,7%. Mentre sullo svantaggio salariale dei giovani pesa per appena un terzo (9,2%) il cosiddetto ’effetto dotazione’, dovuto alle diverse caratteristiche dei due gruppi (come la differente distribuzione tra i posti di lavoro per settore, qualifica, dimensione aziendale).
Stranamente, lo svantaggio salariale dei giovani si riduce nei segmenti occupazionali in cui il lavoro è meno remunerato o meno stabile: lavoro femminile, part time, contratti a tempo determinato, o tra i lavoratori che hanno titoli di studio più bassi o che svolgono professioni poco qualificate. Al contrario, un giovane dirigente o laureato percepisce in media una retribuzione pari a poco più della metà di quella di un adulto con le stesse caratteristiche. Nelle aziende di maggiori dimensioni, però, secondo l’Istat (che sul divario retributivo fa riferimento alla situazione del 2002) la differenza rispetto agli adulti diminuisce.
I giovani italiani rappresentano il 37,8% dell’occupazione nazionale, ma il loro livello di attività (per attività di include la ricerca del lavoro da parte di chi ne è privo entro un determinato lasso di tempo) è ben lontano da quello degli adulti, ossia è inferiore di circa 20 punti. Per di più nel nostro Paese il tasso di occupazione dei giovani di 20-29 anni con un livello di istruzione secondario è tra i più bassi della Ue a 25 (53,3%), mentre quello dei giovani laureati, pari al 50,2%, è il più basso in assoluto, inferiore di oltre 25 punti alla media europea, anche perché il titolo si consegue in età più avanzata. Invece il tasso di occupazione per i giovani di questa fascia, ma con basso titolo di studio, è più elevato rispetto a quelli più istruiti.
L'Italia è anche l’unico Paese Ue dove il livello di occupazione dei giovani laureati è inferiore a quello dei coetanei con titolo più basso. In Italia, infatti, la laurea riduce la probabilità di rimanere disoccupati soltanto dopo i 30 anni, mentre prima il tasso dei senza lavoro si attesta sul 23,9%, il valore più elevato della Ue. In ogni caso, aumenta la propensione a proseguire gli studi, anche grazie al sostegno familiare: su 100 diciannovenni che hanno conseguito la maturità, oltre il 75% si iscrivono all’università nel 2004/2005 (erano il 64% nel 1999/2000).