Sull’argomento stupefacenti rivolgiamo alcune domande a don Giuseppe Dossetti, responsabile del Ceis di Reggio Emilia.
La droga è un fenomeno assai diffuso anche in montagna, ci sono differenze con la città?
“Penso che non ci sia una grossa differenza ormai, tutti i territori si sono omogeneizzati. C’è una brutta abitudine di parlare di droga al singolare e si intende l’eroina, per di più s’intende quella iniettata. Adesso l’eroina iniettata è certamente minoritaria rispetto ad altre droghe, perché la stessa eroina viene fumata spesso. La cocaina ha avuto una diffusione esponenziale, e non parliamo dei derivati della marijuana e di tutte le altre schifezze che ci sono in giro. Quello che è cambiato, secondo me, è che mentre prima le droghe interessavano un settore della popolazione, tutto sommato anche ristretto, adesso sono entrate nella normalità. E’ molto difficile che qualcuno non conosca persone che facciano uso di sostanze, e questo vale soprattutto per la cocaina, che è davvero la nuova emergenza. La cocaina è estremamente subdola, dà l’impressione di poter essere dominata. E’ diventata la droga ricreativa per eccellenza, quella che permette di avere ritmi stratosferici, che apparentemente esalta certe funzioni, e tu ti convinci che puoi smettere quando vuoi. In realtà non è cosi, la cocaina prende pian piano possesso, si cominciano ad avere delle ‘defaillance’ in certi campi: quello lavorativo, quello famigliare, finanziario, perché è uno stimolante fortissimo (come prendere cento caffè tutti insieme). Succede che c’è una prima fase di euforia, poi arriva la depressione. Molto spesso le persone che usano cocaina alternano momenti di euforia e violenza a momenti di depressione e angoscia, di scoramento, e la persona ha la sensazione di perdere il dominio di sè, di tenersi insieme. Non parliamo poi dell’aspetto finanziario, perché molti cercano di mascherare la situazione ma poi c’è il crac improvviso. L’immaginario della società è in ritardo rispetto alla realtà, perché finché uno non ha perso il lavoro, non ha la siringa dentro un braccio, non ha fatto l’overdose, le persone che gli stanno attorno pensano che tutto sommato non sia ancora così grave e che quindi si possa provvedere con qualche rimprovero, stando un pochino più vicini e con dei buoni consigli: in realtà non è così. Noi assistiamo al fatto che la fase nascosta della tossicodipendenza si è molto allungata, cioè la fase non riconosciuta dall’interessato nè dal suo ambiente. Il rischio è che i servizi pubblici e privati, che tra l’altro funzionano molto bene, si debbano occupare soltanto dell’ultimo pezzo e che quindi le situazioni arrivino già molto gravi e compromesse. Perché se si fosse intervenuti prima si avrebbe avuto più successo”.
La famiglia cosa può fare?
“Innanzi tutto è importante quello che noi possiamo fare per le famiglie, cioè la prima cosa è quella di non colpevolizzarle, perché oggi la ricerca del colpevole è sport diffuso quando si parla di droga. Parlando coi ragazzi, essi dicono molto onestamente che la responsabilità è loro e di nessun altro. Infatti vediamo che si drogano figli di famiglie assolutamente normali, coese, e che ci sono ragazzi di famiglie difficili che non si drogano, perché hanno la capacità di autoprogettarsi. La famiglia è veramente molto importante, ma non da sola. La colpevolizzazione della famiglia ha un effetto negativo, perché si sentono giudicati e tendono a lavare i panni sporchi in casa loro e non ce la fanno. Quindi bisogna che le famiglie si rendano conto che non solo in materia di recupero della tossicodipendenza, ma in generale nel processo educativo, non possono pensare di affrontare oggi l’educazione dei figli da sole: devono cercare alleanze, prima di tutto con altre famiglie, poi con realtà associative più ampie, come la parrocchia o la scuola o i servizi per la famiglia. Quando dovessero emergere problemi legati alla droga, bisogna avere il coraggio di parlarne subito. Non si può ridurre l’educazione alla sorveglianza sulle compagnie. Se il livello di comunicazione padre- figlio è buono sarà il figlio stesso che parlerà di un eventuale problema legato alla compagnia. Perciò lavorare su un’alleanza con i figli, perché se i genitori si mettono a fare i poliziotti perdono: i ragazzi sono più bravi”.
Qual è il percorso che conduce nel vortice?
“Dallo spinello si passa alla cocaina e l’alcol può comparire concomitante, l’eroina arriva dopo, molto spesso come sedativo o calmante. Infatti ci sono persone che si fanno di cocaina al mattino e di eroina alla sera. Con la cocaina non riescono più a dormire e per calmarsi si fanno di eroina. In generale il percorso è spinello-alcol-cocaina. Un’indagine Usl del 2001 ha diviso così la popolazione dei giovani: 1/3 si droga stabilmente, 1/3 saltuariamente, 1/3 non usa droghe. Un nuovo dramma è rappresentato dalle persone di 25-30 anni che cominciano a usare cocaina per aumentare le loro prestazioni”.
Come intervenire?
“Dobbiamo per prima cosa creare un clima di accoglienza, dobbiamo uscire dall’idea delle mele marce, le droghe sono di fatto entrate nella realtà quotidiana dei nostri ragazzi, possono essere il sintomo di una crisi più o meno grave e bisogna cercare di leggere il disagio che sta dietro. Perciò bisogna avere un approccio di tipo educativo e non di tipo espulsivo. La cosa importante è che le persone accettino di venire allo scoperto, è questo l’appello che io faccio alle famiglie: se si fa da soli si perde. Seconda cosa: bisogna investire risorse. Infatti quelle del sistema sanitario nazionale vanno in prevalenza per curare le situazioni più gravi; per le altre, come i consumatori di alcol, cocaina, adolescenti in difficoltà, mancano. Qui entrano in gioco i Comuni e le istituzioni e tutta la società civile. Io ho ancora fiducia nei giovani. Dobbiamo fare un esame di coscienza prima di tutto su noi stessi: chiederci, cioè, se abbiamo ancora qualche causa che ci appassiona. Non possiamo trasmettere alle nuove generazioni l’entusiasmo o la voglia di vivere se non l’abbiamo noi”.
di Marco Colombari
Articolo a gentile concessione di TuttoMontagna
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