Inauguriamo con questo scritto un nuovo spazio, a vostra completa disposizione. Con esso vorremmo raccogliere racconti, poesie, memorie. Cose letterarie dei nostri posti, insomma. Possibilmente inedite, com'è nella fattispecie.
Pubblichiamo di seguito un interessante contributo di Umberto Casoli (che ringraziamo) che ci propone un ricordo personale che è, insieme, la descrizione di alcuni aspetti della Castelnovo ne' Monti dei giorni cruciali della Liberazione.
Potrete come solito inviarci gli eventuali vostri commenti attraverso il link posto in calce.
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Eravamo nella seconda metà del mese d’aprile del 1945, avevo da poco compiuto dodici anni ed ero, per l’epoca, poco più d’un bambino. Ma le vicende passate a cominciare dalla fine del ’43 mi avevano segnato profondamente e mi avevano fatto raggiungere la maturità e l’esperienza proprie di un’età maggiore.
Avevo visto tedeschi colpire brutalmente coi calci dei fucili uomini delle nostre campagne scambiati per partigiani e continuare ad infierire su di loro per costringerli, curvi, umiliati, offesi e feriti a percorrere la strada verso il cimitero dove avrebbero perduto ogni residua speranza di vita.
Avevamo subíto due bombardamenti inattesi perché incredibili, avevo respirato la polvere delle case distrutte e l’odore inconfondibile ed indimenticabile del tritolo ed avevo visto morti ai quali solo la guerra sa dare smorfie e aspetti altrimenti inconcepibili. Tra questi alcuni erano conosciuti, altri amici di famiglia. Il terrore che mi prese sotto i bombardamenti mi insegnò a maledire americani e inglesi responsabili di tutto quello sfascio al quale, in quel momento, non riuscivo a dare una ragione. Temevo solo di morire e per questo maledicevo le bombe e chi le sganciava, il resto non mi interessava proprio!
Finito il secondo bombardamento ci mettemmo sulla strada per “Cà dal Cücc”, casa che, in precedenza, avevamo scelto come meta di sfollamento in cerca di quella sicurezza che il paese non era più in grado di offrirci. Là ci eravamo rifugiati dopo il primo bombardamento e là tornavamo ogniqualvolta ci sentivamo in pericolo. Per alcuni mesi, quella strada divenne la nostra “strada di casa” poiché la percorremmo ogni giorno al mattino e alla sera.
Poco lontano da noi, sempre per le stesse ragioni, la famiglia del rag. Andrea Corradi si era sistemata a “Cà ‘d Pedrüla” e quella di Francesco Simonazzi a Bellessere. La breve distanza che ci separava ci fece riunire casualmente a “Cà ‘d Pedrüla” e ciò divenne un’abitudine quasi quotidiana, preziosa per gli adulti che commentavano i fatti politici e bellici che ogni giorno cambiavano e felice per noi piccoli che giocavamo o andavamo alla ricerca di foglie che i grandi fumavano dopo una sorta di concia davvero primitiva e singolare. “Cà ‘d Pedrüla” aveva una caratteristica particolarissima: essendo situata sullo spartiacque del crinale che prosegue dietro Monte Forco, consentiva di osservare in piena sicurezza ciò che avveniva in tutta la zona del paese compresa tra la “Sarzassa” e “Bagnolo” e seguire il percorso della strada per Reggio dai “Perdee” alla “Croce”. Era, dunque, un osservatorio che ci consentiva di controllare avvenimenti in paese e movimenti sulla strada statale. Ne avremmo apprezzato l’utilità soprattutto in seguito.
Intanto dall’autunno del ’44 i tedeschi avevano preso possesso di parte della nostra casa nella quale avevano sistemato un distaccamento della “Sanità” comandato dal sergente Konrad Schuster che, prima di essere richiamato a prestare servizio militare, frequentava il seminario per diventare sacerdote cattolico. Il sergente era persona educata e timida che di sera, prima che tutti ci coricassimo, amava scambiare alcune parole con me nell’unica lingua che avevamo in comune: il latino. Io frequentavo la terza media ed il mio vocabolario si dimostrava sufficiente allo svolgimento di discorsi semplici che ci consentivano, però, di conoscerci meglio. Si può dire che era di casa anche perché con noi divideva l’uso di cucina. Piano piano imparò la nostra lingua certamente favorito dalla conoscenza del latino. Amava dipingere ed uno dei suoi acquerelli apre il mio libro Castelnovo ... un paese ... tanto tempo fa ... edito nel 2003.
Konrad si affezionò a mia madre che probabilmente gli ricordava la sua e che lo ricambiò in eguale misura ravvisando in lui mio fratello lontano e, forse, alle prese con gli stessi problemi. Nei primi mesi del ’45 questa confidenza indusse mia madre ad un passo importante e rischioso: offrire a Konrad la possibilità di salvarsi consegnandosi ai partigiani con i quali mio padre aveva contatti sicuri. Lo avremmo dotato delle necessarie credenziali, gli avremmo fornito idonei abiti civili offrendogli, dunque, l’opportunità di raggiungere i suoi familiari alla fine della guerra che si annunciava sempre più prossima. Konrad rimase in assoluto silenzio per un tempo che a me sembrò infinito, tanto che già temevo il peggio. Poi, col suo solito italiano incerto, si rivolse a mia madre e le disse: “Ringrazio per quello che siete disposti a fare per me, ma non posso accettare. Ho fatto un giuramento e debbo rispettarlo. Spero in Dio”.
Da quella sera passarono giorni nei quali la ritirata tedesca sembrava sempre più vicina, ma non avveniva mai. Poi, d’improvviso, notammo un’insolito movimento di mezzi ed una irrefrenabile agitazione nei soldati. Il sergente ci confermò che stavano facendo i preparativi per la partenza, ma la data non era ancora stata fissata. Finalmente si sparse la voce che i tedeschi sarebbero partiti il giorno dopo. Ciò trovò conferma nel fatto che tutti i carri agricoli disponibili in paese furono “prenotati” assieme ai necessari animali ed agli indispensabili conducenti. Tra questi vi era anche la Benilde Guidi, moglie e madre di due deportati nell’ottobre del ’44.
Alla vigilia del giorno fissato per la partenza, il sergente ci salutò commosso, ripetè la sua fiducia nell’aiuto di Dio e ci disse che se avesse potuto dopo la guerra sarebbe tornato a trovarci.
Al mattino seguente ci trovammo nell’aia di “Cà ‘d Pedrüla” per osservare i movimenti al riparo da ogni pericolo. Vedemmo snodarsi giù per la “Macchiusa” un serpentone di carri e uomini che lasciavano il paese. La felicità grandissima era turbata da un dubbio atroce. Sarà vero e per sempre?
Un paio di giorni dopo venne da noi la Benilde e ci portò un pacchetto che le aveva affidato il sergente Konrad al momento di salutarla a Reggio. Era fatto alla “bell’e meglio” con carta vecchia e conteneva un biglietto che recitava press’a poco così: “Cari signori Casoli, non so se riuscirò a tornare a casa. Se non riesco, tenete questi “cosi” in mio ricordo. Se riesco li chiederò. Saluti, K. Schuster”.
Il messaggio ci rattristò ed un groppo ci salì in gola. Osservammo i “cosi” ad uno ad uno: c’erano le foto dei genitori, alcune loro lettere e tanti acquerelli di Castelnovo, simili a quello che mesi prima m’aveva regalato. Trovammo anche immagini sacre e catenine, oltre ad altri effetti personali. Custodimmo tutto per mesi interminabili poi inattesa, ma sperata, giunse una cartolina dalla Germania: “Sono tornato. Vorrei riavere i miei 'cosi'. Grazie. K. Schuster, ecc. ecc”. Fummo felici e gli spedimmo celermente i suoi ricordi. Dopo alcuni anni prese i voti. Una sera, al cinema, il custode del teatro, Ostilio, mi venne a chiamare perché Schuster mi cercava. Pensai ad uno scherzo e invece ... fuori c’era lui, il fu sergente Konrad ora don Schuster che, in compagnia di alcuni suoi parrocchiani, si era infilato in un mitico pullmino Volkswagen ed era venuto a trovarci. Abbracci, contentezza e mille cose da ricordare, ma, soprattutto, un suo grande desiderio: dire Messa nell’Oratorio. Il desiderio fu manifestato all’Arciprete don Carretti che consentì di buon grado e il giorno dopo, al mattino, tutti a Messa da don Schuster.
Con lui abbiamo mantenuto rapporti epistolari per diversi anni e gli abbiamo anche ricambiato una visita. Poi ha cambiato parrocchia e da tempo non abbiamo sue notizie. Forse è finita per sempre una storia bella nata in un periodo triste e cupo nel quale un bimbo italiano ed un soldato tedesco si sono parlati in latino, si sono compresi e si sono ritrovati nei principi di una comune religione.
Dicevo all’inizio che eravamo oltre la metà d’aprile del ’45 quando i tedeschi, dopo quasi due anni di occupazione, se ne andavano. Temendo che potesse avvenire ciò che era accaduto altre volte, e cioè che tornassero, non avemmo il coraggio di restare nelle nostre case ad osservare l’evento più volte sperato. Come avveniva da tempo, anche quella sera di vigilia la passammo a “Cà dal Cücc” e solo il mattino seguente salimmo a “Cà ‘d Pedrüla” per osservare i movimenti in paese. Vedemmo allontanarsi una colonna rabberciata e disordinata che testimoniava la disfatta imminente. Fummo felici: i tedeschi erano andati veramente e, per quel che si poteva capire, non sarebbero più tornati. Le notizie che “radio scarpa” diffondeva parlavano di un prossimo arrivo degli alleati e tutti fummo presi da una incontenibile frenesia.
Io ero in preda a grande agitazione e non sapevo come predispormi per l’incontro che avrei voluto festeggiare. Come dimostrare la felicità per un evento così importante come la fine della guerra? Tra le varie idee una mi sembrò la più sensata: esporre le bandiere dei paesi alleati in modo che apprezzassero i nostri sentimenti di grande gioia e partecipazione. Il problema più immediato e grave era trovare le bandiere delle quali, ovviamente, non esisteva esemplare in nessuna famiglia! Pensai, dunque, di farmele “in casa” con materiali reperibili in cartoleria e fu davvero un’idea magnifica. Andai nel magazzino dove mio padre teneva la carta di recupero da utilizzare per fare i pacchi e trovai fogli grandi di colore “carta da zucchero” che mi parvero adatti allo scopo. La carta era robusta e spessa e questo avrebbe assicurato che le bandiere stessero distese anche se esposte con il supporto inclinato.
Ma non sapevo come fossero fatte in realtà: avevo idee vaghe, ricordavo le stelle e le strisce della bandiera americana, ma quanto al numero ... nulla! Anche dell’inglese ricordavo una croce rossa intersecata da diagonali altrettanto rosse. Forse le strisce rosse avevano un bordo bianco, ma sì il bordo era bianco, ma poi quei soldati che aspettavo avrebbero davvero badato a questi particolari? Mi convinsi che la cosa più importante era che vedessero le loro bandiere al nostro balcone e capissero che questo segno voleva dire “finalmente” e “grazie”. Andai in solaio per non essere visto (volevo che la mia idea fosse una sorpresa anche per i miei) ed iniziai a preparare le bandiere. Sulla carta azzurra attaccai le strisce rosse orizzontali e, nell’angolo in alto a sinistra, con uno stampino di cartone e un po’ di vernice bianca, feci un numero imprecisato di stelle. Ripetei l’operazione sull’altro lato ed ecco la bandiera americana! Con analogo procedimento ottenni la bandiera inglese e risolsi il mio problema. Scesi poi in giardino dietro casa e raccolsi due rami nuovi di nocciolo, di quelli che sempre crescono a fianco del ceppo principale, e li utilizzai come aste. L’attesa mi parve interminabile, ma finalmente un giorno, intorno al 24 aprile, dalla discesa di Capanni vidi avanzare lentamente un bestione d’acciaio che la mia memoria cataloga come “carro armato”. Esposi le bandiere al balcone e corsi in strada. Dal “mio” carro armato (che secondo alcuni amici faceva parte di una colonna che da Rovina arrivava fino a “ca’ di Guerra”) vidi spuntare soldati che offrivano cioccolata e caramelle e tutt’intorno ragazzi e adulti felici che stringevano mani, gettavano margherite e mandavano baci. In cuor mio ero orgoglioso delle mie bandiere che, sole nel paese, non potevano passare inosservate. Attesi davanti a casa i soldati per sincerarmi che anche loro le notassero: qualcuno alzò lo sguardo, sorrise e disse qualcosa che, ovviamente, non capii. Non so nemmeno se quelle parole si riferissero alle mie bandiere, agl’immancabili errori o a cos’altro. So che ne fui immensamente felice e che quell’emozione non si è perduta.
Ogni tanto sogno un “carro armato” e due bandiere. Lontano sento anche il rumore di aerei bassissimi, ma il fragore delle bombe e l’odore di morte non li sento più. Deo gratias!
(Umberto Casoli, Castelnovo ne' Monti)