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Riforma dell’Onu

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La recente visita di Gianfranco Fini a New York (11-12 aprile) ha sigillato l’inizio ufficiale di uno scontro diplomaticamente cordiale, ma che si preannuncia politicamente asprissimo, sul tema della riforma delle Nazioni Unite, e in particolare del Consiglio di sicurezza. In gioco c’è la possibilità, per i decenni a venire, di incidere continuativamente e profondamente sui futuri equilibri mondiali o, viceversa, di restarne esclusi. Per quanto i processi decisionali dell’organizzazione siano stati spesso indeboliti dall’unilateralismo di alcune superpotenze, rimanerne ai margini sarebbe oggi un pesante handicap.
È con questa consapevolezza che 119 paesi si sono trovati all’Hotel Roosevelt, nel cuore di Manhattan, raccogliendo l’invito a partecipare al meeting presieduto dal nostro Ministro degli Esteri. L’incontro si è dimostrato assai riuscito, in quanto la proposta italiana Uniting for consensus, é riuscita a compattare intorno a sé non solo un alto numero di paesi, ma anche l’appoggio aperto della Cina, già seggio permanente al Consiglio di Sicurezza.
La commissione di saggi nominati dal Segretario Generale Kofi Annan, e il recente rapporto di quest’ultimo, In larger freedom, hanno infatto indicato due modelli per uno sviluppo del Consiglio di Sicurezza, affinché questo divenga più democratico, inclusivo e rappresentativo, e in sostanza rispecchi un mondo contemporaneo ormai profondamente diverso da quello in cui le Nazioni Unite furono fondate.
L’attuale Consiglio di Sicurezza include 15 membri, 5 dei quali (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia) permanenti e con diritto di veto, più altri dieci non permanenti e senza diritto di veto. I rapporti citati propongono due soluzioni – modello A e modello B – quali linee guida per una ristrutturazione di tale organo. Il primo prevede l’aggiunta di nuovi seggi permanenti, da assegnare a Giappone, Germania, India e Brasile, più due paesi ancora non individuati (probabilmente africani). Il secondo prevede invece l’allargamento dei seggi non permanenti con rotazioni a periodi più o meno lunghi.
In tale contesto è ovvio che i cosiddetti G4 (Giappone, Germania, India e Brasile) hanno stretto un patto di ferro per fare approvare il modello A (servono i due terzi dell’Assemblea Generale) e spingono per una rapida soluzione della controversia. Dalla loro parte hanno anche il Segretario Generale che – già in cattiva luce per gli scandali che lo hanno toccato più o meno direttamente e nel tentativo di ridare credibilità all’organizzazione – vuole concludere l’affare in fretta, prima di questo settembre quando i capi di stato di tutto il mondo si troveranno a New York per sigillare la riforma, e a spegnere la sessantesima candelina delle Nazioni Unite.
Per evitare che tale scenario si realizzi, l’ambasciatore italiano all’ONU, Marcello Spatafora, aveva già presentato il 24 febbraio il documento Uniting for Consensus, avanzando l’idea che la riforma avvenga in modo condiviso. Per consenso, appunto, poiché non sembra opportuno che decisioni di tale rilevanza e durevolezza siano raggiunte con colpi di mano e affrettatamente. Il documento è così diventato, nella riunione dell’Hotel Roosevelt, il manifesto di un gruppo di paesi (71 hanno ufficializzato la loro adesione) che si oppongono ai G4. Per il momento quindi il rischio che questi ultimi tentino una sortita facendo approvare dall’Assemblea Generale la risoluzione di riforma in loro favore sembra allontanarsi. Tuttavia la partita è ancora apertissima. Il tempo gioca a favore dell’Italia, ma sono in molti ad avere fretta al Palazzo di Vetro, e come sempre le posizioni e gli equilibri possono cambiare da un momento all’altro, per qualsiasi imprevisto. Intanto però la nostra diplomazia si trova in prima linea in una battaglia che che si risolverà sul filo di lana, e la cui conclusione porterà all’Italia o un accresciuto prestigio internazionale, oppure, in caso di sconfitta, a rimetterci la pelle per prima.
Noi ci auguriamo che si verifichi questa seconda ipotesi, non però per patriottismo o nazionalismo. Anzi, per il contrario, perché siamo convinti che le Nazioni Unite siano oggi l’unico luogo in cui è possibile almeno tentare un approccio comune, sovranazionale e multilaterale ai problemi. Una riforma escludente del Consiglio di Sicurezza limiterebbe invece la possibilità, già agonizzante, di vedere la politica – nella sua sede più alta – ridotta alla difesa di interessi ristretti, anziché liberata da essi, e di affrontare i problemi come se riguardassero tutti complessivamente, non solo i molti e piccoli che ne sono afflitti e che continuano a non avere né voce in capitolo, né veto, né voto.

Vedi il sito della Rappresentanza Italiana alle Nazioni Unite