“Bisogna assumere una militanza”, esordisce Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose. “Non fate morire il vostro idealismo”, segue James Nachtwey, statunitense, fotografo di guerra, rivolgendosi ai giovani che abitano il mondo. Anche se siamo al teatro Ariosto di Reggio Emilia, le parole abbracciano di certo il mondo intero, nessuno escluso, durante il “Dialogo sulla Guerra” tenutosi ormai qualche mese fa, il 17 ottobre scorso. Il tempo passa, ma i contenuti, come si può facilmente constatare, restano di una attualità bruciante.
“La guerra c’è sempre stata, la guerra infuria e non c’è motivo di credere che la guerra cesserà in futuro. L’uomo diventa più civilizzato e i suoi strumenti di distruzione sono diventati ancora più efficienti”. È lo stesso James Nachtwey a scriverlo, vent’anni fa, pensando al suo lavoro, che in futuro lo avrebbe portato a diventare un affermato photo reporter del National Geographic e di Time Magazine. La sua missione è racchiusa in una domanda: “è possibile porre fine, con la fotografia, a una forma di comportamento umano che è esistita in tutta la storia? Si tratta di un’affermazione le cui proporzioni sembrano ridicolmente squilibrate. Tuttavia, proprio questa idea mi ha motivato”.
“Negli anni del Vietnam, dell’ex-Jugoslavia, ho detto no alla guerra, sì alla pace”. È questa la militanza di cui parla padre Bianchi: “se la guerra ha una presa tremenda sulla collettività, significa che collettivamente dobbiamo mettere pace nel quotidiano, tra le persone, con maggiore speranza”. E la fotografia mostra, contribuisce ad avere consapevolezza, ricorda James Nachtwey: “in inglese diciamo costituency, un momento di confronto tra opinioni che permette la conoscenza delle cose e la visibilità dei propri errori. Una democrazia è fatta di molte voci, e l’opinione pubblica è stata cambiata anche attraverso la fotografia: non fate morire il vostro idealismo”, e non è solo una frase affascinante, ma “una convinzione che accompagna per tutta la vita”.
La difficoltà è vedere, rimanere toccati, e sapere aspettare. Il cambiamento è un processo lento, basato sulla costruzione di una massa critica capace di reagire e di acquisire la coscienza che è vero, “è possibile fare pressioni sui politici e fermare la guerra”. Il fotografo, che vive a New York e ha testimoniato all’istante la tragedia dell’11 settembre dal principio fino al collasso degli edifici, non crede “che ci sia un elemento unico, individuale, che possa risolvere un conflitto: il mondo è un processo, e la guerra deve essere coinvolta nel processo”. Così diventa importante “l’opinione che sentite dagli altri e quella che si sente dentro”.
James Nachtwey, lo ammette, è solo un granello di sabbia. “Quanti contributi positivi i media possono dare alla società”, ma l’informazione che apre gli occhi ora resta solo allo stato potenziale. Forse, addirittura, “è un’arma”, si chiede Enzo Bianchi. “Il fotografo si rende conto dell’ingiustizia e vi si oppone, ma i media e la pubblicità non rimuovono la violenza, che parrebbe contro gli interessi, ma la ostentano, con un uso politico”. Si forma quindi un’ambiguità schizofrenica, e la gente si ritrova impotente davanti agli orrori, da non poterli più sopportare fino a rimuoverli: “le barbarie dilaganti feriscono ed è questo a destare stanchezza, non la compassione”. “Se la gente, distante, fosse là, se avesse visto”, si rammarica il priore, per poi indicare una strada percorribile: “bisogna dare consapevolezza alla gente”.
Non vede altri orizzonti per una vita nella dignità e nella libertà, James Nachtwey, non vede futuro o speranza, non vede nulla dopo, se non coinvolgersi, capire cosa una persona porta ad un’altra persona: “ho fotografato persone semplici, private di ogni cosa, che condividevano nella miseria assoluta: sono eroismi della normalità, e non potrò mai dimenticarne i pregi, l’umanità”. Enzo Bianchi è deciso: “bisogna svelare il male assoluto che opera tra gli uomini, bisogna prendere il cammino della comprensione”. “Io ho speranza perché la incontro ogni giorno attraverso il contatto concreto con le persone” dice, “ma sembra che in molti abbiano rigetto per le persone. Siamo veramente ancora disposti a incontrarle?”.
James Nachtwey le ha incontrate e fotografate, ostinatamente in prima linea, dove è stato gravemente ferito, da una granata, a Baghdad, nel dicembre 2003. I suoi scatti sono opere d’arte, basta osservarne le prospettive, la struttura compositiva: come se volesse toccarle, le persone, come se volesse trasferirne la vitalità e la sofferenza sulla pellicola. Immagini, parole e testimonianze per dichiarare guerra contro la guerra. Non sembra vero, ma è così: basta crederci.
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