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Buon compleanno Martin Luther King

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Che gli Stati Uniti siano il paese delle contraddizioni è risaputo. E gli elementi discordanti che la compongono si amalgamano in un sugo indigesto. Il 17 gennaio in America è stata festa nazionale. Io ero uno dei pochi a trovarmi sulla metropolitana quella mattina, che da tempo ormai è riservata alla celebrazione e alla memoria di Martin Luther King (nato in realtà il 15 dello stesso mese), il profeta afroamericano della nonviolenza, morto assassinato nel 1968 in circostanze mai del tutto chiarite. Riflettendo sul senso di quel giorno, e soprattutto sul senso di quel giorno adesso, in un momento di guerra belligerata, ho subito pensato all’evangelica ipocrisia dei farisei che piangono i profeti uccisi dai loro padri. Ma si tratta di una descrizione riduttiva. Non c’è malafede nel comportamento schizofrenico di questo paese, c’è invece una convinzione reale di essere i liberatori del mondo. L’epifania di questo diffuso sentimento l’ha procurata George Bush nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, tenuto il 21 gennaio. Il presidente americano si è eletto paladino e messia del Bene. Tremiamo.
È una presentazione del secondo mandato fatta in stile millenaristico, con toni apocalittici, che richiamano l’idea non di un progetto politico da realizzare, ma di una missione da compiere. La differenza è grande. Sarebbe quasi meglio che dietro a tutto ciò ci fossero davvero soltanto le trame dei petrolieri, denunciate dai detrattori di Bush. Esse hanno un peso rilevante senza dubbio, ma il punto è che lo sfondo su cui si dipingono ha le caratteristiche tipiche dell’invasamento pseudoreligioso. Su queste basi si aprono conflitti che impiegheranno molto più tempo a sanarsi che semplici questioni di pozzi e di confini. Dietro a tutto questo insomma non ci sono solo gli interessi privati di Bush, ma un rigurgito di religiume nella sua accezione negativa. In un certo senso il rigurgito di ciò che, dallo spirito religioso Martin Luther King aveva faticosamente cercato di eliminare. La celebrazione del compleanno postumo di questo pastore protestante è stato insomma l’esatto contrario di ciò che si voleva celebrare. Ecco allora che il senso della nascita di un uomo (ma infine ciò per cui è vissuto e morto) viene rovesciata proprio nel momento in cui si sbandiera. Ma non c’è contraddizione in questo: Luther King viene pianto veramente. Tuttavia mentre lo si piange lo si seppellisce. E con lui il suo sogno.
Avranno lavorato quel giorno le truppe sguinzagliate da Bush per il mondo, avranno bombardato, fatto retate, incursioni? O avranno fatto festa come nella Grande Mela? Mi sovvengono fantasociologiche visioni di truppe intente a leggersi la lettera dal carcere di Birmingham, o il famoso I have a dream, "Ho un sogno", il discorso che durante la marcia su Washington, King pronunciò di fronte a milioni di persone. Persone stanche di guerra e di oppressione, in cerca di un riscatto dalla discriminazione sociale e razziale. Erano i tempi del Vietnam, che forse però troppo pochi, sfortunatamente, ricordano. Non so se nella tomba, il pastore protestante che ha fatto conoscere all’America la possibilità di "combattere" in un altro modo per la giustizia e la libertà, dorma oggi un sonno tranquillo. Temo che anche per lui, come per troppi abitanti di questo pianeta, il sogno americano si sia trasformato nell’incubo americano.
Intanto rimaniamo in attesa, con tremore e speranza, che le roboanti promesse di George Double War Bush vengano, stavolta sì, miracolosamente, disattese.