“La bottiglia vuota” è stato un cammino, un bellissimo cammino. Bellissimo perchè parlava, di cultura e storia. Li ha affrontato con il sorriso, Moni Ovadia, accompagnando il pubblico del Teatro Bismantova nelle terre e nel pensiero dei Khassidim.
I Khassidim sono coloro che appartengono al mondo khassidico, quell'ampia area dell'Europa dell'Est abitata da ebrei ortodossi di ispirazione mistica. Sul finire della prima metà del ventesimo secolo, gli ebrei vennero sradicati con il sangue dall'Europa. La luce dell'est si oscurava, l'alba non era più del sole, ma della morte. L'ascesa del nazismo e del cancro del genocidio imperversò nel continente che ora, dopo quasi sessant'anni, si sta allargando, proprio a est. I Khassidim sono, perchè la dignità e l'identità della tradizione si conserva nel cuore dei figli, ma appartenevano al mondo khassidico, perchè i villaggi e i ghetti dell'Europa orientale furono cancellati. La memoria diventa allora un imperativo, il progetto per il futuro, la chiave di lettura per allontanare l'odio e la violenza, che sono pesanti e non hanno colore se non l'oscuro, e per mostrare il sorriso, leggero e profondo. Si tratta di una leggerezza e una profondità vagamente astratta, apparentemente assurda, essenziale per cogliere la saggezza e lo spirito dell'umorismo ebraico. Sulle ali del sorriso e della memoria, come i corpi pieni di vita degli amanti e dei rabbini volanti dipinti di Chagall, l’impegno è ciò che sostiene. "Senza impegno" dice Moni Ovadia "la vita non è vita, ma solo sopravvivenza, e chi sopravvive produce, consuma, e lascia spazzatura: the life is short then you die, è scritto su una t-shirt negli Stati Uniti".
Negli Stati Uniti, durante gli anni sessanta, anche un cantautore ricordava che la vita è breve e poi si muore. Phil Ocs cantava "When I'm gone": quando me ne sarò andato, non ci sarà un posto, in questo mondo, a cui apparterrò. Se bisogna declinare l'appartenenza al passato, cosa decliniamo al presente? Il presente è tempo di speranza. L'impegno di Moni Ovadia, che nacque nel 1946 in Bulgaria e dopo un paio d'anni arrivò con la famiglia a Milano, è la fratellanza universale. L'artista porta con sè l'eredità dellíesilio, della paura della scomparsa: vedere stravolte le proprie origini significa vedere piano piano morire "le radici di un albero che senza radici non può crescere”, ma solo cadere. Ogni popolo e ogni differenza contribuiscono alla vastità del mondo. Il suo messaggio di pace è racchiuso nel rispetto e nella giustizia verso lo straniero: l’ampia appartenenza all’umanità.
"La Bottiglia Vuota" è un monologo di due ore. E' un grande monologo, perchè descrive il concetto di Dio, di amore per il prossimo, di pace, secondo la spiritualità ebraica. E' un piccolo monologo perchè costruisce una dimensione raccolta, interiore, di riflessione. Moni Ovadia recita e suona alla chitarra le melodie di salmi biblici e di lamenti composti nei lager dell'Olocausto. Con un semplice: “abracadabra!”, che non è un'allitterazione di parole senza senso, ma una traduzione dall'aramaico che vuole dire "creare, dare vita", Moni Ovadia invita alla musica: le luci si spostano sul palcoscenico, e rivelano due musicisti: al clarinetto, Mitika Ion Bosnea; alla fisarmonica, Albert Florian Mihai. Sono zingari, appartengono al popolo Rom, vittime, insieme agli Ebrei, della diaspora europea e della discriminazione. Improvvisano e riprendono i motivi dello swing balcanico. “Perchè suonate così veloci?" domanda l'attore. "Perchè se no, ai matrimoni Rom, dove si balla e si balla, gli invitati si arrabbiano" rispondono. A teatro, luogo chiuso, la cultura, ebraica e zingara, rinasce, come se non ci fosse spazio, fuori, per ascoltarla. Ecco che lavorare per la pace diventa capire, avere la consapevolezza, ottenere qualche strumento per superare l'indifferenza, lo stereotipo, la superficialità.
Moni Ovadia, nel prologo, rappresenta il concetto di silenzio, quella pausa in cui si ascolta solo il sibilo dell'anima. Si avvale della teologia rabbinica, riprende passi della Torah, la legge. In ebraico, il tetragramma J-v-h, che indica la figura divina, è impronunciabile. Ai pedi del Sinai, nel deserto, luogo del ritiro e del silenzio più assoluto, gli ebrei non videro nulla, sentirono una voce, e ricevettero la legge. Ecco che la parola diviene fondamentale. Il divino è voce, e la parola - scritta e orale - la musica, l'arte, sono il rilancio della creazione. Quindi? Quindi la parola è troppo importante per non curarla e abbassarla. La parola è una cosa seria, è quella che usa l'uomo per comunicare. Dalla parola possono nascere tanto la pace, quanto l'odio. Di solito dalla comprensione, quando la parola si spiega, nasce la pace. Moni Ovadia racconta, con un aneddoto, perchè tifa per il Napoli. A Verona, allo stadio, gli ultras della squadra scaligera accolgono i giocatori del Napoli con insulti razzisti; partita di ritorno, a Napoli i tifosi napoletani restano in silenzio, poi, nei secondi prima del fischio iniziale, dispiegano un immenso lenzuolo che copre l'intera curva. C'è scritto: Giulietta è 'na zoccola. "I napoletani, in quanto a umorismo e uso della parola, hanno una marcia in più".
E' stato un cammino, un bellissimo cammino. Moni Ovadia ha tracciato la storia, il misticismo e la cultura di questi Khassidim attraverso aneddoti, storielle, canzoni tratte dal patrimonio culturale dell’ebraismo orientale in chiave semi-seria, come è solito fare.
Alla fine dello spettacolo, fa una sorpresa al pubblico e ringrazia la montagna e il patrimonio culturale che possiede: il Maggio, uno dei più genuini esempi di teatro popolare. Dietro le quinte, confida di aver accompagnato il poeta Giovanni Raboni a vedere un Maggio la scorsa estate, e di aver apprezzato il suggeritore che “si nascondeva dietro la mano”.
"La bottiglia vuota" iniziava con una manciata di citazioni e di libri. Se li era portati sul palco, l'attore, come preludio al suo recital, traboccante di nuove prospettive e non immediati riferimenti. Non poteva che essere così, quando ha parlato di una psicanalista, Julia Kristeva, per rispondere a questa domanda: "Chi è lo straniero?" Ma la testimonianza si è rivelata autentica, e l'interpretazione appassionata del testo e della musica è bastata a scardinare ogni difficoltà. Chi è lo straniero, allora? Dio è straniero, il Diverso è straniero, l'altro che vive in noi è straniero e noi siamo stranieri a noi stessi perchè c’è sempre qualcosa, un segreto, che rimane e non si riesce a cogliere fintanto che non apprezziamo il silenzio. Moni Ovadia lo intende con una spiritualità laica. Il silenzio rivela e arricchisce allora ciò che è fondamentale: il rispetto, la pace, il sorriso, la memoria e l’impegno.
Mi rendo conto di non aver ancora assistito a un Maggio. Se non conosco le mie origini, dove trovo l’esperienza per andare? Se non partecipo culturalmente alla piccola parte in cui sono nato, come posso partecipare al tutto, per esempio all’idea europea? Un mio amico una volta mi ha scritto che la condizione di straniero alimenta il bisogno di conoscere e di capire. Ho deciso: quest’estate vado a vedermi un Maggio.