Se solo Sergio Leone in quegli anni l’avesse incontrato, ne avrebbe senz’altro fatto uno dei suoi epici personaggi. Difatti, il nostro somigliava incredibilmente al vecchietto dalla vocetta simpatica con un dente solo tipico di quei film. Di Joseph Egger, l’attore che in “Per un pugno di dollari” interpretava la parte di Piripero e che in “Per qualche dollaro in più” era il vecchio profeta, egli aveva i baffoni bianchi e gli occhietti vispi; occhi che si facevano fessure quando ridacchiava (sotto i baffi, appunto), o quando squadrava - con certosino impegno - le morbidezze o le gambe di qualche bella ragazza. Leccandoseli, i baffi, come un vecchio gattone, e arricciandone le punte in su alla Vittorio Emanuele II. Che l’ultima metà degli anni Settanta era ancora il tempo della minigonna (e pure degli shorts portati in pieno inverno sui collant), laddove solo i cappotti si erano allungati all’inverosimile, anticipando l’avvento delle abominevoli maxigonne.
E per fortuna che li avevano escogitati, i collant, e ci avevano liberate, noi ragazze, dal tormento del reggicalze; che sarà stato anche sexy, però fastidioso e scomodo lo era da morire.
Era normale, la minigonna, era così normale che nemmeno le signore cinquantenni osavano oltrepassare il ginocchio, pure evitando di vestirsi con quelle che, più che gonne, parevano cinture dilatate a coprire appena l’inguine. Andavamo in giro in minigonna con assoluta naturalezza come, con altrettanta naturalezza, quando arrivò l’atroce novità dei pantaloni a vita bassa, strettissimi, tanto stretti che dovevi sdraiarti sul letto per chiudere la cerniera lampo, uscimmo tutte con la pancia nuda e la maglietta striminzita toccante appena la cintura. C’è da dire che, allora, con un’alimentazione ancora lontana dai pastoni industriali veicolanti zuccheri e grassi in quantità, appunto, industriali, non mettevamo su i rotoloni di adipe modello salvagente che si vedono in giro oggi - strabordanti sopra e sotto il giro vita – tristemente zebrati di smagliature.
Eravamo adolescenti magri magri, e i maschi, fasciati nei pantaloni a zampa d’elefante beige (i colori del periodo erano il nocciola chiaro, il grigio cenere, il marrone cammello, l’avana), sempre a vita bassa, incollati alla pelle fino all’assurdo, probabilmente rischiavano di autoevirarsi ogni volta che si piegavano, poveretti.
Per non parlare del guidare imprigionati nell’insignificante spazio di una Cinquecento o di una Bianchina, con la stoffa che ti incideva le cosce come un doloroso cilicio.
Carloncino non era più un giovanotto, ma impazziva per le belle gambe. E pure per i fondoschiena torniti e i bei seni. Per lui la minigonna non era certo qualcosa che passava inosservato, qualcosa di ordinario, come poteva essere per i nostri coetanei ragazzotti che si scomponevano giusto un po’ solo quando salivi i gradini della corriera.
Carloncino, se c’era una minigonna nei paraggi, si bloccava come di fronte a una visione, muoveva impercettibilmente i baffoni, se li lisciava a lungo con le dita brune di nicotina e poi, appunto, se li ripassava con la lingua come un gatto concentrato negli abituali lavacri.
La prima volta che lo incontrai, indossavo giusto una minigonna rossa, a godet, con pois bianchi, poi una camicetta a fiori dal collo a orecchie di coniglio, allacciata sopra l’ombelico, e quelle scarpette arancioni, le Barrow’s (però un’imitazione) che tutti noi, ragazzi e ragazze, portavamo in quel periodo. Noi credevamo che le Barrow’s fossero inglesi, che fossero calzature di grande valore infatti, con i jeans Wrangler e gli occhiali Ray Ban a goccia, erano diventate in quel momento quasi una divisa. Viceversa, di inglese il prodotto non aveva niente: la scarpa nasceva a San Vittore Olona, studiata prima di tutto per il mercato milanese, quello dei “sanbabilini”, simpatizzanti di destra frequentanti Piazza San Babila. Noi non sapevamo niente delle varie etichette politiche e le portavamo solo perché, arancioni e moderne, ci piacevano.
Costavano, le Barrow’s, e non è che la maggior parte di noi avesse poi tutti quei soldi in tasca, così si compravano quelle finte; più che altro, in tasca noi ci ammucchiavamo gli assegnini.
Già: i miniassegni che sostituirono, per qualche anno, le monetine. Perché le monete, inaspettatamente, erano scomparse! Quelle da 50 e da 100 lire, ovvio, perché quelle d’argento da 500 lire con le caravelle - che si narrava potessero esistere con le bandierine controvento e valessero milioni – se le avevamo, le tenevamo ben chiuse in un cassetto.
Saranno state le gettoniere dei juke-box, dei flippers, o le varie biglietterie automatiche a fagocitare tutte le monete in circolazione? Mah, chissà. Qualcuno ha poi ipotizzato che i fabbricanti di orologi giapponesi avessero comprato tutte le nostre monete per trasformarle in casse per i loro prodotti, però la cosa puzza tanto di leggenda metropolitana.
Comunque, non c’erano monete per il resto e i bottegai ti fiondavano in mano caramelle, gettoni telefonici, cerotti, e qualsiasi altro inutile oggetto che andava ad ingombrare il tuo borsellino. I tabaccai ti riempivano di francobolli che si attaccavano ovunque, si smarrivano, sparendo nelle tasche, nelle borse o nel maschile borsello (perché con i pantaloni incollati al corpo, gli uomini non riuscivano più a mettersi le mani in tasca, così era stato ideato il borsello).
Quindi, al posto della moneta – e di tutti i suoi inservibili surrogati - qualcuno si inventò un assegno circolare di piccole dimensioni del tutto simile a quelli ordinari, intestato ad associazioni di commercianti o artigiani, o supermercati, o grandi ditte.
Avevano un valore, gli assegnini, che andava dalle 50 alle 300 lire ed erano stampati su una carta talmente scadente e sottile che, passando di mano in mano, cominciavano a sfrangiarsi, a scolorirsi, riducendosi in qualcosa che somigliava a pezzetti di kleenex. Nessuno, allora, considerò quanto le banche potessero guadagnarci, visto che buona parte di quei ritagli di carta sarebbero andati distrutti dall’uso e mai incassati. Credo che si sia trattato di un’enorme speculazione che, per fortuna, è durata pochi anni; però, neanche allora mica c’era da insegnare alle banche come turlupinarci, a quanto pare.
La prima volta che vidi Carloncino, dunque, fu a un partita di calcio del Torneo dell’Amicizia, precisamente al Casale di Bismantova. Il poco pretenzioso Torneo dell’Amicizia, rivolto a tutti i paesini della montagna - pure ai più minuscoli e sperduti, come Villaberza - dal 1969 era stato messo accanto al più prestigioso Torneo della Montagna, una competizione riservata ai soli grossi centri, nata ufficialmente nel 1948 sotto il patrocinio del Centro sportivo italiano di Reggio.
Pochi coraggiosi volontari sostenevano il torneo di serie “b” dei poveri (e scalcinati) calciatori dell’Amicizia, dandoci veramente l’anima. Non era un impegno da poco, perché comportava anche tutta la campagna acquisti dei calciatori, con grandi discussioni e litigate.
A quella partita mi ci portò il mio moroso, perché si giocava tra i padroni di casa (il Casale) e gli avversari più odiati, gli avversari per antonomasia - quelli tipo Inter/Milan - cioè i calciatori del Costa de’ Grassi. E il mio moroso era proprio di Costa, anzi: era fratello del presidente della squadra, Domenico, uno di quei coraggiosi volontari di cui sopra.
Così, il mio moroso mi portò, per la prima volta, alla grande partita dei suoi compaesani.
Che dire “compaesani”, per quelli di Costa, è come dire essere dello stesso sangue: ci si può massacrare all’interno del paese, farsi sgarberie, discutere per i confini, per una siepe, per le pecore di qualche pastore debordate nel tuo campo - come Attila a eliminarti l’erba - ma quando si è “fuori” si diventa, improvvisamente, tutti parte dello stesso clan, accomunati nell’appartenenza che è “l’essere di Costa de’ Grassi”.
Avrà forse avuto origine questa solidarietà tra compaesani nel fatto che il paese, intorno al 1300, era stato il covo di un famoso brigante, Tommaso Marescalchi, che aveva spadroneggiato sul Crinale, assalendo le carovane provenienti dalla Garfagnana e dalla Lunigiana?
Chi lo sa; certo, un po’ anarchici e briganti quelli di Costa, in fondo in fondo, lo sono rimasti.
Andai, quindi, al derby dell’Amicizia. In Cinquecento.
Quella bianca del mio moroso, perché la mia, invece – comprata usata da mio padre che me ne aveva fatto dono – era blu scuro. Un’automobile, la vecchia “Cinquetti”, che, pur minuscola, richiedeva le abilità di un camionista per via del giochino frizione/folle/acceleratore/frizione e marcia che noi chiamavamo “doppietta”; giochino indispensabile, altrimenti le marce grattavano e non entravano.
Una specie di incubo per i guidatori meno esperti. Sì, era piccola e umile la Cinquecento, era simpatica, ma era pure testarda come un mulo quando le si imponeva il cambio marcia senza “doppietta”. E allora, via: rilasciare la frizione, dare un colpo (o due) all’acceleratore, premere la frizione, innestare la marcia inferiore prima che il motore arrivasse al numero minimo di giri, rilasciare ancora la frizione in modo che vi fosse l’innesto della marcia. Eppure, tante donne la guidavano… e poi dicono che le donne non sanno guidare!
In Cinquecento (ma anche in 128 Fiat, Nsu Prinz, Simca, queste ultime definite “a saponetta”, vetture per automobilisti che, pur volendo un’auto abbastanza lunga in modo da farsi notare e fare i galletti, stavano attenti a non spendere troppo) molti altri, come me, erano lì al Casale di Bismantova a vedere la partita del Torneo dell’Amicizia.
Da dire che di amicizia, in quelle partite, pareva essercene ben poca, almeno tra i tifosi.
Il clima era da stato di guerra, ma, in realtà, sotto sotto, era tutta una commedia; tifosi e calciatori si divertivano un sacco e non erano per niente nemici.
Se mai avessi voluto imparare qualche parolaccia o imprecazione (o bestemmia) nuova, l’evento pareva fatto apposta. Credo che la fantasia nell’“inventio verborum” degli abitanti di Costa sia sempre stata insuperabile e comunque rimasta imbattuta.
Disse una volta il simpatico don Raimondo Zanelli che i “bismantovini” (gli abitanti del Casale) e quelli di Costa de’ Grassi avevano una particolarità: la contessa Matilde proprio in mezzo a loro sceglieva i suoi boia. Don Zanelli è sempre stato un buontempone, gli piaceva scherzare, ma a vedere i tifosi delle due squadre venire alle mani, picchiarsi, sbraitarsi gli improperi più inconcepibili (e creativi), e poi, magari, riprendere la contesa e le botte nelle sale da ballo – da “Pigoni”, per esempio – nei fine settimana successivi, c’era da dargli ragione.
Carloncino era alla partita come supporter del Costa; baffi impomatati e con punte ben arricciate all’insù, camicia a quadri rigorosamente abbottonata al collo e ai polsi, i capelli bianchi un po’ lunghi e ben pettinati che spuntavano da un berretto - una specie di coppola – , sigaretta in bocca e pacchetto di “Alfa” che andava fuori e dentro dalla tasca, dato che l’enfasi della partita lo aveva forse un po’ agitato.
Carloncino era davvero piccolo, probabilmente aveva la statura del “reuccio” (quel poco più di un metro e mezzo che, in ogni caso, non gli aveva impedito di fare il militare e la guerra). Basso e magrissimo, leggermente curvo e con le gambe storte, ma nervoso, forte, e poi dotato di una voce potentissima. Una sorta di Charlot con voce da Pavarotti.
Lo chiamavano così, nel dialetto di Costa: Carlunscìn. Un dialetto, quello di Costa, che non conoscevo e che capivo solo in parte, molto ostico, dove il nome Carlo diventava “Carle” e il suo diminutivo – tanto francese – era, appunto, Carlunscìn. Un dialetto con dei suoni terribili, come il “dj” che sostituisce la “c” dolce in certe parole, schiacciando la lingua contro il palato: “baciòc” = “badjiòc”, o il raddoppiamento di alcune consonanti finali: “uldamm” = letame, o parole davvero uniche, come “maguzzada”, che sarebbe la semplice palla di neve o dei veri e propri “falsi amici” come “tiràr” che vuol dire dare delle botte o “piciàr” che vuol dire, invece, buttare.
Il mio futuro marito, lì al campo sportivo, mi presentò Carlunscìn come suo vicino di casa e all’uomo brillarono gli occhi, mentre mi diceva che ero proprio una bella signorina ma che ero anche fortunata perché avevo trovato un bel moroso, bello e bravo.
Solo più tardi scoprii che, in realtà, nonostante la loro differente, opposta stazza fisica, i due erano parenti, e anche abbastanza stretti. Quando, due anni dopo, mi sposai, mi ritrovai Carlunscìn e la Catò (sua moglie) come dirimpettai. Essi diventarono così quasi dei secondi nonni per i miei figli, oltre che divertenti miei amici.
Carlo era dunque minuscolo, eppure dotato di quel gran vocione che gli aveva permesso, in passato, di cantare il “Maggio” con gli altri compaesani. A me non sembrava esattamente intonato, ma forse per quell’ambito musicale bastava la potenza vocale, più che l’intonazione.
Che da un petto tanto minuto potesse uscire tanta voce lo capii quando in Tavernetta, a Cervarezza, arrivò Fausto Leali. La “Taverna” (come la chiamavamo noi), locale del buon Valter dalla giacca bianca, era una delle sale da ballo della montagna – che allora ce n’erano davvero tante, aperte anche la domenica pomeriggio per gli adolescenti più giovani che, come me, la sera non potevano uscire – e ospitava, ogni tanto, qualche grande nome della musica e dello spettacolo. Quella volta toccò a Fausto Leali.
Ero lì vicino alle colonne che delimitavano la zona poltrocine ai bordi della pista da ballo, quando lo vidi arrivare. A parte che Leali era vestito come un contadino di Costa intento a tirar su il fieno, mi fecero impressione le sue dimensioni perché, oltre alla statura ridotta, era magrissimo, con il volto scavato e una testa disarmonica, forse per i lunghi capelli arruffati che gli conferivano un’aria da elfo. Poi cominciò a cantare, e furono brividi. Perché la voce ti rimbombava dentro anche senza tutte le diavolerie elettroniche in uso oggi ai divi.
Carlunscìn cantava soprattutto quando gli scappava bevuto un bicchiere di troppo, giù al bar della Catirola – e penso che gli bastasse davvero un bicchiere, visto il suo peso – e poi risaliva verso casa dalla stradicciola di Fardana, dritta dritta, sassosa e con una pendenza da paura, magari facendosi accompagnare dal cugino Vittorio, pure lui in vena di festeggiamenti, così che, durante il tragitto, non so chi sostenesse chi; fatto sta che poi il giorno dopo si incolpavano vicendevolmete di aver esagerato con le libagioni e di aver dovuto accompagnare l’altro.
La Catò, all’apparire del marito, gli dava il benvenuto sgridandolo come un bambino e chiamandolo “scandle”, poi lo portava in casa, lo sistemava sul divano, lo copriva con un plaid e, sempre brontolando, aspettava che ritornasse in sé. Buona come il pane, la Catò, tonda come un uovo, con il fazzoletto in testa perennemente legato stretto stretto sulla nuca e calato sugli occhi, il grembiule a fiorellini e qualcosa di commestibile in mano – quando tornava dalla bottega – per i miei figli, in caso li avesse visti lì davanti a casa.
E se non aveva niente di adatto per un bambino, era capace di aprire una cartata di prosciutto e di lasciarglielo mangiare così, con le mani, e avevo da provare, io, a protestare!
I due avevano una cucina dove, nei pomeriggi invernali, ogni tanto mi rifugiavo con i miei bimbi per farmi due risate in compagnia.
Lì dentro si rasentavano i trenta gradi di temperatura, con la stufa a legna che andava al massimo, il fumo delle sigarette – le Alfa, le Colombo e altre dalla puzza atroce - che aleggiava a mo’ di nebbia, un fiasco di toscano sempre pronto sulla tela cerata del tavolo - che era indispensabile offrirne un bicchiere a chi entrava – e la lavatrice continuamente in funzione.
Perché la Catò, come diceva Carlunscìn, era una donna pulita.
Anche troppo, diceva lui. E brontolava, lui, quando la vedeva stendere file e file di mutande, brontolava e diceva che a far così pareva che loro due si pisciassero addosso. No, non stava bene mettere in mostra le mutande lavate!
Ma la Catò lavava, e la usava la lavatrice, mica come altre signore del posto che lavavano ancora le lenzuola a mano perché la lavatrice altrimenti, secondo loro, le rovinava.
Soltanto che la Catò la riempiva troppo, la stipava all’inverosimile, convinta che più biancheria ci avrebbe infilato, più la macchina avrebbe acquistato in stabilità. Invece… Si entrava in casa e si vedeva la lavatrice camminare per la stanza con lei abbracciata che cercava di tenerla ferma e Carlunscìn, la sigaretta in mano, le mani al cielo e i baffi incolleriti, che tirava giù tutti i santi e le madonne (e qualcuna se l’inventava pure).
In cucina avevano poi la televisione e Carlo e Catò furono tra i primi a mettere l’antenna per ricevere le reti delle televisioni private. Io la televisione non l’avevo neanche comprata, così, quando volevo vederla, andavo da loro.
Ora pare strano che prima avessimo solo tre reti a disposizione, quelle della Rai, ma fu solo nel 1976 che il fenomeno delle televisioni libere si diffuse in tutt’Italia; una sentenza della Corte Costituzionale del 1976 decretò infatti la fine del monopolio della Rai. Nel 1977 iniziarono le trasmissioni di “Antenna 3 Lombardia”, un’emittente di Legnano, e nel 1978 partirono le trasmissioni di “Telemilano” di Silvio Berlusconi, una Tv che trasmetteva da uno scantinato nel residence di Milano 2.
Fu solo nel 1980 che Berlusconi trasformò “Telemilano” in “Canale 5”, per la gioia di Carlunscìn, il quale, davanti alle varie trasmissioni con ragazze sistematicamente scosciate e scollacciate, si beava interi pomeriggi e sere, tormentando a più non posso i suoi baffoni.
Litigavano in continuazione, Carlunscìn e Catò, parevano i vecchietti del “Muppet Show”, ma si capiva bene che recitavano un loro copione, sempre lo stesso, e che si divertivano pure. Intorno, spesso, i loro nipotini, di cui Catò si occupava (e quanto ne parlava, gongolandosi!) con un affetto infinito e commovente.
Quello di alzare la voce inveendo e pure sacramentando, come se fosse in atto un omicidio - tanto che chi ascolta e non sa della cosa potrebbe anche spaventarsi - è tipico di Costa, e mi ci volle un po’ per abituarmici e farmelo scivolare sulla pelle.
Era inoltre roba del luogo (un po’ napoletana) a cui non ero avvezza il chiamarsi da una casa all’altra, parlandosi dalle finestre, proseguendo poi in lunghi colloqui. O il chiamarsi a gran voce fuori dalle porte, invece di bussare. Abbreviando i nomi, però, e terminandoli, di solito, con un accento sull’ultima vocale. Così mia suocera, che si chiamava Gemma, nel richiamo ad alta voce della Catò diventava – alla francese – un lungo “Jeeeeeè”.
Mia suocera e Carlunscìn erano primi cugini, e quasi coetanei, cresciuti insieme, lì in alto, alla “Crocetta” (o “Madonnina”, per via di una maestà in muratura), quindi avevano rapporti di grande confidenza, mutuo aiuto e condivisione. Lui, poi, sapeva fare di tutto, ma proprio tutto: dal contadino, al muratore, all’idraulico, all’elettricista, al falegname, al cacciatore; solo, diciamo che improvvisava un po’ e sovrabbondava in fantasia.
Lo scoprii improvvisato muratore quando mia suocera ebbe la bell’idea di far aprire una finestra nel lato ovest della sua casa dai muri di pietra larghi mezzo metro.
Eccolo, dunque, approntare una sorta di ponteggio costituito da una vecchia asse traballante appoggiata da un lato sul piolo di una scala sgangherata e, dall’altro, sul ciglio del campo sovrastante, all’altezza circa di due metri e mezzo da terra.
Ed eccolo che, dopo aver spaccato a colpi di mazzuolo la parte del muro in questione, liberandolo dalle grosse pietre tenute insieme dalla rosea malta di gesso, lo si vedeva camminare dal prato alla finestra su quell’asse malferma, con la cazzuola piena di calcina, – che cascava da tutte le parti – a mo’ di funambolo, dare due colpi sugli spigoli appena abbozzati e tornare a riempire la cazzuola. Roba da brivido. E poi rifinire tutto, all’interno, con lo stucco di gesso spalmato a dovere con le mani, riempiendo i buchi che comparivano qua e là con carta da giornale o altro materiale e poi levigare bene, mettendo a tacere così i dubbi di mia suocera che, dal basso della scala, lo implorava di farle un bel lavoro.
Quand’ebbe finito, tutto soddisfatto, si lisciò i baffi e – simpaticamente - si vantò non poco del suo bellissimo risultato. Mia suocera parve soddisfatta, anche se c’era qualcosa che non la convinceva. Pure io avevo notato una lieve pecca nello squadro della finestra, ma me ne stetti zitta per non offenderlo. Ci pensò poi mio cognato Domenico, la sera, quando, tornato dal lavoro, entrò lì da sua madre, alzò gli occhi alla nuova finestra e sbottò: “Ma non vedete che uno dei lati è di traverso? Non vedete che è tutta storta?” Vero: Carlunscìn aveva creato un nuovo tipo di finestra: a trapezio e non a rettangolo. Perché creativo lo era davvero, ma in modo inconsapevole.
Purtroppo, mia suocera non tenne conto della sua vena artistica e lo costrinse a risquadrare la finestra nella più morigerata forma rettangolare.
Ma l’apice della creatività Carlo lo raggiunse quando mia cognata gli commissionò la sistemazione di una cameretta nella vecchia casa dei suoi. Dopo aver anche lì forato una porta per mettere in comunicazione due stanze e aver montato una porta a soffietto che, in seguito, non si chiuse mai, Carlunscìn si imbarcò nell’avventura di sistemare l’impianto elettrico.
Andai giù a vederlo lavorare e mi spaventai non poco quando lo vidi trafficare con i fili della luce senza assolutamente aver staccato la corrente. Ogni tanto prendeva la scossa, allora sacramentava un bel po’, poi ricominciava, e guai a dirgli che forse era il caso di staccare il contatore. Mio figlio rideva a crepapelle nel vederlo saltellare come Willy il coyote intorno a quei fili che sprizzavano sfavillii improvvisi; Carlo fingeva di offendersi e gli faceva segno che l’avrebbe sculacciato, poi continuava imperterrito nella sua performance da elettricista creativo.
Quando l’ho conosciuto, Carlunscìn già non aveva più le mucche nella stalla; diceva mia suocera che le aveva vendute senza nessun rimpianto, anzi: che le aveva salutate con una sonora pacca sui fianchi, affermando che, da quel momento, lui non avrebbe più lavorato, che avrebbe fatto il signore. Invece, io non lo vedevo mai fermo, tranne quando beveva quel famoso bicchiere di troppo.
Come tutti a Costa, aveva la motofalciatrice che, con la lama alzata, andava attaccata sotto a un piccolo carro, trasformandosi in un mini trattore; davanti c’erano il volante, l’acceleratore e il freno a pedale; uno spettacolo di ingegnosità (emiliana?).
Dice lo storico dell’agricoltura Antonio Saltini, giornalista e agronomo, che negli anni Sessanta i professori di economia spiegavano che era impossibile meccanizzare l’agricoltura, per non aggravare la piaga della disoccupazione bracciantile. Poi l’industria iniziò a risucchiare i braccianti agricoli e i governi nazionali vararono i successivi “piani verdi”, con i cui fondi i contadini comprarono la motofalciatrice. Per rispondere alla crescente domanda, molti fabbri si convertirono in costruttori di attrezzature agricole. Qualcuno gridò che quei fondi erano “interventi a pioggia”, che non avrebbero mai creato un’agricoltura moderna. Invece, nel “miracolo italiano” l’agricoltura si era modernizzata, e l’industria delle macchine agricole - tanta proprio reggiana - sfidò primati mondiali. Che pena vedere oggi come, invece, si è ridotto il nostro Paese.
Però, Carlunscìn la motofalciatrice non la sapeva guidare, così, quando aveva bisogno di usarla, doveva chiedere aiuto al genero o, più tardi, ai nipoti già ragazzini.
A volte aiutava mio marito e mia suocera a portare a casa il fieno, ed era bello vederlo partire sempre un po’ curvo con la forca e il rastrello sulle spalle, così lunghi rispetto al suo fisico minuto, e la perenne sigaretta in mano.
Che se poi capitava - come quel pomeriggio terribile in cui eravamo a caricare il fieno nei Ronchi, giù tra Monte Rosso e Monte Gebolo - che si alzasse un ventaccio spaventoso, tanto forte da sparpagliare il fieno tutto intorno, vedere Carlunscìn che tribolava a stare attaccato con i piedi per terra, lottando per non volare via con il foraggio, sentirlo imprecare e inveire contro tutti i santi e non santi, era uno spettacolo imperdibile.
Aveva fatto la guerra, Carlunscìn, e mi raccontava che era tornato dalla Grecia e si era fatto l’Italia a piedi dalla Sicilia fino a casa. Parlava del canale di Corinto, affermava di averlo superato appeso ad una fune. Difficile sapere quanta parte di verità ci fosse in quel che raccontava, ma quelli come lui, reduci dall’orrore delle guerre, meritavano comunque rispetto e ascolto.
Non so nemmeno come avessero potuto riprendersi, una volta tornati, come avessero potuto dimenticare e andare avanti. Non c’era il supporto di uno psicologo, allora. C’era solo il lavoro da ricominciare senza tante storie e la famiglia di cui occuparsi di nuovo.
Forse, quel bicchiere di troppo, ogni tanto, e tutte quelle sigarette servivano anche a quello, a soffocare il ricordo di ciò che avevano vissuto.
Perché erano tornati, sì, ma tanti compaesani erano rimasti là e la coscienza di essere dei privilegiati sopravvissuti doveva aver pesato non poco.
Carlunscìn fu uno degli amici anziani di mio figlio piccino, insieme ad altri vecchi di Costa i quali, quando lo incontravano - poiché portava il nome di mio suocero che non c’era più - gli si rivolgevano con profondo affetto, magari estraendo dalle tasche caramelle impiastricciate di tabacco (e rimasugli di fieno) e porgendogliele.
Allora era bellissimo vedere un bimbetto di due o tre anni parlare in dialetto con loro e salutarli con le stesse loro mosse e lo stesso atteggiamento.
“I me bei!”, chiamava i miei figli la Catò. I suoi “belli”, e lo diceva di tutti i bambini.
La nuova villa del nipote Roberto, oggi, occupa lo spazio della vecchia casa di Carlunscìn e spesso penso che lui, da lassù, sogghigni felice e si arricci i baffoni, tutto soddisfatto di tanta prosperità nella sua famiglia.
Certo, ci fosse stato ancora lui vivo, magari avrebbe potuto squadrare quelle finestre a trapezio e forse avrebbe potuto pensare ad un impianto elettrico più fantasioso.
E non oso immaginare con quanto compiacimento la Catò avrebbe gridato: “I me bei!” osservando tutti i suoi meravigliosi pronipoti.
Vita che continua, indomita, nonostante tutto.
Cara Normanna, non c’è bisogno che te lo dica io che scrivi da dio, sei la voce della nostra storia e anche questa volta non solo hai azzeccato il personaggio ma tutto il suo contorno, il suo mondo con tanti spunti che sono dentro di noi, ma che riaffiorano perchè tu li hai fissati. Brava anche per i trafiletti di storia pura a cui fai riferimento. Che donna!
(Ilde Rosati)
Cara Normanna, io e mia mamma vogliamo veramente ringraziarti per aver ricordato mio nonno e per averlo raccontato, con la tua meravigliosa scrittura, proprio com’era: un personaggio! Grazie di cuore!
(Elda e Sara)
Cara Normanna, il tuo racconto è volato oltre oceano. Mi presento: sono Iva, la figlia dei tuoi personaggi, Carlunscin, mio padre e la Catò, mia madre. Ti ringrazio per avermi fatto rivivere quei tempi che sono ancora presenti, nella mia mente e nel mio cuore, con una forte emozione e, non lo nego, con una lacrima. Io vivo in America – Florida, a Fort Lauderdale e la lontananza mi riempie il cuore e la mente di ricordi che tu hai fatto riaffiorare prepotentemente. Sì, mio padre era un personaggio e mia madre la persona più buona di questo mondo. Mia sorella Elda le assomiglia molto e come non ricordare mio fratello Nino, con un cuore pieno di sentimenti e questo amore di fratelli lo dobbiamo ai tuoi personaggi, nostri genitori. Grazie, cara.
(Iva Marzani)
Grazie anche da parte mia Normanna! Io sono Donatella, nipote di Carlunscin e della Catò. Bellissimo ricordare piccole cose a cui non pensavo da tanto tempo! Quante nanne su quel divano vicino alla stufa in braccio alla nonna Catò! E quante croste di grana abbrustolite sulla stufa! Attaccati al tubo della stufa c’erano i mestoli e uno in particolare me lo ricordo bene, lo usavo per prendere l’acqua dal rubinetto e berla. Ogni estate andavamo su e ritrovavo tutti i miei cugini, zii, amici. Ora è tanto tempo che non torno a Costa ma non nego che il desiderio è forte, soprattutto di ritrovare zia Elda, zia Leda e tutti i miei cugini: Mauro, Roby, Ste, Sara, Lollo e Sandro, tutti i “bei” della nonna Catò… Grazie ancora per questi bei ricordi.
(Doni)
Leggerti è una vera pacchia, ho appena compiuto i 60 e in quegli anni ho conosciuto quel bel mondo, Walter compreso, che ricordo tifoso della Fiorentina.
(Lucibill)
P.S. – La mia “cinquetti” era avorio e nel 71 tutte le domeniche pomeriggio era parcheggiata di fronte “la tavernetta”. Lì ho incontrato mia moglie con la quale sono felicemente sposato dal ’76. Grazie infinite dei bei ricordi.
Ciao Normanna, grazie davvero per quanto stai facendo! Lo fai con passione e professione ma fai piacere a chi ha vissuto “un tempo”. Sei un fiume in piena di belle cose, ciao ti stimo.
(Eros Tamburini)
Ciao Normanna, ho letto il tuo racconto tutto di un fiato, mi è piaciuto molto, io non ho conosciuto personalmente i personaggi del tuo racconto ma ho vissuto gli anni che hai descritto tanto bene. Eravamo proprio così, minigonne mozzafiato, calzoncini corti e pantaloni fasciati addosso. Mi hai fatto tornare indietro di 30 anni! E poi le mitiche Cinquecento! Grazie di avermi rifatto sentire sulla pelle speranze e illusioni di quegli anni. Un abbraccio grosso grosso.
(Lucia Della Scala)
Non posso che complimentarmi con Normanna, essendo anch’io del 56 più o meno come lei, mi ritrovo nei luoghi e nei personaggi caratteristici dei nostri paesi: anche a Vetto, dove sono nato, ce n’erano in abbondanza.
(Ivano Pioppi)
Cara Normanna, ho già avuto modo di complimentarmi per la tua scrittura, tanto pulita quanto evocativa, non ha senso che mi ripeta ancora. Leggere però i commenti di alcuni tuoi compaesani, e di Iva Marzani soprattutto, ha accresciuto il mio piacere di lettura. Se anche chi è stato protagonista o spettatore dei tuoi racconti ti riconosce la grande capacità di restituire ricordi in maniera così precisa significa che la mia partecipazione emotiva è ben riposta. Credo che tu possa davvero essere soddisfatta di te stessa.
(Morena Silingardi)